L’hotspot di Pozzallo comprende da pochi mesi un container
pensato per l'"accoglienza" di minori e famiglie. Uno spazio “dedicato” a chi
in hotspot dovrebbe solo transitare dopo lo sbarco, ma dove ormai i
trattenimenti illegittimi e prolungati sono fatti passare per “normali ed inevitabili”.
Situazioni accettate supinamente anche da alcune organizzazioni che dovrebbero
difendere i diritti dei migranti ma in realtà continuano a non denunciarne le
violazioni, preoccupati più di conquistarsi una fetta di guadagno all’interno
del sistema che di tutelare e proteggere chi arriva.
Mentre alcune ONG prendono posizione e dimostrano
quotidianamente l’impegno sul campo, le politiche migratorie dettate dall’alto
lasciano alle organizzazioni umanitarie sempre meno potere nell’attività di
assistenza, orientamento e protezione che le dovrebbe contraddistinguere. La
retorica istituzionale spinge ad accontentarsi del “meno peggio”, a divenire un
ingranaggio perfettamente funzionale al mantenimento di un sistema volto al
controllo, alla criminalizzazione ed all’espulsione dei migranti. Convincersi della propria impotenza, o
cercare di farlo perché più “conveniente”, è il primo passo per non cambiare
veramente nulla, se non in peggio.
Sempre più drammatiche sono infatti le condizioni in cui i
profughi arrivano e vengono “accolti” in Italia, comprese quelle dei minori. La
gravità degli abusi e delle violenze che ci vengono riferite durante i nostri
incontri di monitoraggio è tale che viene difficile darne un’ idea tramite la
scrittura. Tutto ciò continua da anni, e ora non si può più parlare di
indifferenza ma solo di disumanità.
In hotspot ed al porto.
Minori e vittime di tratta
Adulti e minori vengono invece trattenuti per giorni nella
tendopoli del porto ad Augusta. Nonostante la temperatura prossima ai 40 gradi
e la totale inadeguatezza della struttura, continuano le prassi disumane che
danno priorità alle operazioni di indagine e controllo piuttosto che alla
ricerca immediata di luoghi idonei ad ospitare i soggetti vulnerabili. Ci
chiediamo come sia ancora possibile che lo stesso spiegamento di forze usato
per la ricerca dei cosiddetti “presunti scafisti” non venga invece impiegato
nel contrasto alla tratta di esseri umani a fine di prostituzione. Un fenomeno
molto reale e visibile fin dal momento dello sbarco, che coinvolge sempre più donne
minori, trasferite in ordinari centri di prima accoglienza dove non godono
della tutela dovuta.
A metà luglio abbiamo incontrato alcune di loro in una
struttura del siracusano, presso un centro di prima accoglienza che ospita
circa 30 ragazze minori, provenienti da diversi paesi tra cui Nigeria, Eritrea
e Marocco, alcune delle quali sappiamo essere state segnalate come possibili
vittime di tratta anche all’OIM, ma tuttora non risultano inserite in specifici
programmi di protezione. Le motivazioni sembrano essere diverse, una su tutte
la mancanza di posti nelle strutture dedicate perché già sovraffollate. Nel
frattempo, come ci spiega un’operatrice, molte di loro hanno avviato la
procedura per richiedere la protezione internazionale e sono soggette a
restrizioni particolari: “non possono uscire se non
accompagnate, non ricevono soldi e non possono fare chiamate, se non sotto la
vigilanza del tutore”. Queste regole, imposte in un contesto che non offre loro
in cambio una reale e specifica protezione ed assistenza, rischiano spesso di
penalizzare piuttosto che aiutare le ragazze e di rendere la convivenza
all’interno del centro ancora più difficile da gestire. “Sono qui da 5 mesi e
ogni giornata è più lunga dell’altra. Due volte la settimana seguo il corso di
italiano poi basta, niente telefono, pochissime uscite, nessuna novità, pure il
cibo è sempre uguale. Dicono che è così per la mia protezione”, ci confida una
giovane ragazza di Benin City. Sappiamo che come lei sono decine se non
centinaia le giovani in questa situazione. Quanto realmente le istituzioni si
prendono cura di loro, nonostante i convegni e le altisonanti dichiarazioni
sulla carta? Perché non si potenziano i mezzi e le occasioni di contrasto a
questo traffico già dal momento dello sbarco?
Non si risparmia invece sul fronte dei rimpatri e della
militarizzazione dei confini; agli sbarchi ci sono squadre di esperti nello
screening delle nazionalità e nel supporto al foto segnalamento ma non
altrettante persone dedicate alla tutela dei minori, dal momento dell’approdo
fino a quello del trasferimento. “Al porto di Catania ogni volta ognuno cerca
di scegliersi quali ragazzi prendersi per il proprio centro. Alcuni “vogliono”
minori che hanno meno di 16 anni, altri si rifiutano di ospitare ragazzi di
certe nazionalità, come gli egiziani ed i bengalesi”, ci raccontano operatori
di tre diversi centri della provincia. Prassi altamente discriminatorie che non
hanno come obiettivo una maggior tutela ma la speranza di gestire in modo più
“comodo” ed “economico” la convivenza all’interno dei centri, evitando per
esempio di avvalersi di mediatori linguistico culturali.
Fuori dal sistema
“È da mesi che ci attiviamo per il trasferimento dei
neomaggiorenni nelle strutture idonee, come gli Sprar. Non abbiamo risposte né
dalla Prefettura né dal Servizio Centrale. Per noi non esiste buttare dei
ragazzi sulla strada ma questo complica davvero molto la gestione del centro”.
A parlare è il responsabile di un centro di prima accoglienza per minori non
accompagnati del catanese. La sua
difficoltà è comune alla maggior parte degli operatori dei centri per minori,
dove il compimento della maggiore età da parte dei ragazzi trova molti
“impreparati”. “Siamo nati come un centro di primissima accoglienza e ci siamo
poi ritrovati costretti ad ospitare le persone per periodi molto più lunghi. Per
noi è stata una fatica enorme farci carico di tutte le incombenze burocratiche
ed amministrative relative al rilascio dei documenti ed alla loro conversione,
e, non da ultimo, garantire i ‘servizi’ che non ci competevano ma sono dovuti a
qualsiasi ragazzo, come l’istruzione nelle scuole pubbliche e l’avviamento
professionale”, continua il responsabile.
Tra chi non può, chi non sa e chi da troppo tempo non vuole
tutelare in modo adeguato i minori, rimane sempre più preoccupante la
situazione delle centinaia di neomaggiorenni trasferiti al Cara di Mineo, per
quanto riguarda la provincia catanese, e di molti altri “sollecitati” ad
andarsene autonomamente dai centri.
“Ogni
giorno mi dicevano che dovevo trovarmi un altro posto, che qui non potevano più
tenermi. Da quasi un anno chiedo aiuto per avere un lavoro, ma per tutta
risposta mi si propongono come esempio i miei compagni che lavorano nelle
campagne a giornata o fanno lavoretti per alcuni signori di qui”, ci confida H.,
fino a pochi giorni fa alloggiato al centro di accoglienza di Giarre, sul quale ci siamo soffermati alcuni mesi fa.
Attualmente sappiamo che nella struttura sono “ospitati”
circa 65 migranti, tra cui alcuni ragazzi del Bangladesh che non hanno la
possibilità di usufruire di un servizio di mediazione nella loro lingua madre
ma possono comunicare solo in inglese o italiano. Per chi alloggia qui,
un'altra possibilità di “lavoro” è data dalla vendita ambulante di merce nei
vicini paesi che danno sul mare. Decine di chilometri a piedi con temperature
torride e giornate intere spese a percorrere tutto il litorale alla ricerca di
acquirenti tra i bagnanti. Il guadagno massimo si aggira sui 65 euro al giorno,
di cui almeno 20 finiscono nelle mani dei “boss”. Di tutto questo sono
perfettamente al corrente i gestori del centro, che sembrano vedere in questa
ennesima situazione di sfruttamento più una possibilità per “tenere a bada” la
disperazione dei migranti, dovuta alla mancanza di lavoro, che una situazione
di ingiustizia e pericolo. D’altro canto, nel centro non c’è nessuna attività
volta ad orientare ed inserire i ragazzi nel mondo del lavoro regolare, sia
pure a livello di apprendistato. “Non so cosa sia un curriculum, non ho nessun
libro per leggere ma solo il mio cellulare per informarmi e tradurre le cose
che non capisco quando mi parlano”, ci dice un ospite neomaggiorenne. “Mi
piacerebbe stare in Italia, ma se non trovo un lavoro buono qui penso dovrò
andare in Germania”: difficile rendere lo stupore dipinto sul suo volto quando
lo informiamo che per andare fuori dall’Italia è necessario un documento di viaggio
valido e che il suo permesso di soggiorno non gli dà diritto ad una permanenza stabile
in un paese europeo in assenza di precisi requisiti. Intanto al centro di
Giarre da alcuni mesi si susseguono proteste da parte dei migranti, sedate
puntualmente dall’arrivo di polizia e carabinieri.
Garantire servizi al minimo, promettere ciò che si sa non è
possibile mantenere, non informare in modo corretto ed esaustivo gli ospiti su
ciò che prevede la legge italiana e sulla tempistica nel rilascio dei
documenti. Sono molte le strategie di “contenimento” e controllo che i gestori
esercitano nei confronti di chi arriva da un paese e da contesti totalmente
altri ai nostri. Sembra essere questo infatti l’obiettivo di troppi centri
autorizzati dalle Prefetture e vincitori di bandi di gara, a dispetto del loro
mandato di maggior tutela del minore e di un loro inserimento nel contesto
sociale.
Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus