La storia di A. si ripete in molti altri luoghi della Sicilia e non vede coinvolti solo minori ma anche donne e uomini presenti sul territorio da diversi mesi e “respinti” dagli stessi centri che dovrebbero accoglierli. Nelle ultime settimane al porto di Catania sono arrivati più di mille migranti, ben 850 solo domenica a bordo della nave Bourbon Argos e pochi giorni prima altri 288 insieme a 20 salme.
Molti di loro sono stati trasferiti come spesso accade al Cara di Mineo, ultimamente assente dalle cronache giornalistiche ma ancora deputato all’alloggio di quasi 5000 persone. Un luogo in cui chi transita rimane un numero, lasciato a se stesso in una fase del proprio percorso migratorio che richiederebbe invece un’adeguata e competente assistenza individuale, così come prevede la legge. Non solo per quanto riguarda l’avvio delle procedure per i documenti, ma anche per il percorso di possibile inclusione nella società di approdo e soprattutto per la situazione di vulnerabilità e fragilità dei migranti presenti, primi fra tutti i superstiti dei continui naufragi.
Nella realtà quotidiana invece Mineo si ripropone come luogo di abbandono e oppressione, dove la disperazione genera conflittualità e un sistema di violenza strutturale miete le sue vittime in continuazione. Risale a pochi giorni fa la notizia di un altro migrante investito con la sua bici nei pressi del Cara; in aprile la stessa sorte era toccata ad un ragazzo di 25 anni deceduto poi ad inizio estate. Da un centro situato nel mezzo del nulla, a 7 km dal paese abitato più vicino, l’unico mezzo disponibile per muoversi sono le bici. E spesso l’unica possibilità di guadagno per mantenere la propria famiglia o non lasciarsi morire nei 18 mesi di permanenza rimane il lavoro nelle campagne, sotto regime di sfruttamento, dove i migranti si recano pedalando per chilometri su strade buie ed insicure.
L’alta ricattabilità e la posizione di precarietà ed estremo bisogno in cui si trovano e sono volutamente lasciati i profughi, fanno di loro le prede perfette per un sistema di sfruttamento che va dal caporalato, alla prostituzione, alla gestione della “accoglienza” come se si trattasse di merce e non di esseri umani.
La giustificazione più usata è sempre la stessa: la mancanza di posti disponibili a fronte degli imponenti arrivi. I discorsi si fermano qui, come se la cosa fosse ancora accettabile dopo anni in cui a tutti è chiaro che il fenomeno migratorio non può essere gestito da politiche di respingimento e selezione ed un sistema improntato sull’assistenzialismo, quando va bene. Per lo stesso motivo ormai non fa più nemmeno scalpore che centinaia di persone rimangano ammassate per settimane nella tendopoli situata all’interno del porto di Augusta, luogo strutturalmente inadeguato e decisamente insalubre per la vicinanza di un inceneritore e la presenza massiccia di polveri e zolfo nell’aria. Basterebbe prendere coscienza anche solo di questo per reclamare il trasferimento immediato dei migranti che vi rimangono appena sbarcati, ma ad oggi non si ha nessuna pubblica notizia di denunce o opposizioni in tal senso da parte di chi alla tendopoli del porto ci lavora, con buona pace del diritto alla salute di tutti.
Anche ad Augusta, come presso l’hotspot di Pozzallo, a rimanere più a lungo sono spesso i minori; dopo gli ultimi sbarchi ci risulta che diverse decine di loro sono al porto da almeno due settimane. Si intavolano discussioni interminabili su quote e tentativi fallimentari di ridistribuzione, per evitare di dire che solo canali sicuri e legali potrebbero porre fine alle traversate destinate a trasformarsi in stragi ed al grande traffico di esseri umani. Non basta cercare di migliorare ciò che già esiste, se non si denuncia il totale fallimento umano a cui stiamo assistendo e non si cerca di mettere in atto delle alternative.
C’è poi chi dal nostro sistema viene rifiutato in partenza, come le decine di cittadini nordafricani respinti in questi giorni. Durante la giornata di sabato 5 novembre una ventina di migranti tunisini sono giunti al porto di Pozzallo nell’invisibilità totale; la Prefettura di Ragusa non ha attivato i consueti canali di comunicazione e le organizzazioni preposte all’attività di accoglienza, tutela ed informazione in banchina non sono state allertate, nemmeno la Protezione Civile. Un episodio molto grave su cui ci auguriamo che le stesse organizzazioni provvedano a fare chiarezza, mentre gli stessi tunisini sono ripartiti il lunedì successivo verso il Cie di Pian Del Lago, con un foglio di espulsione in mano.
Dagli hotspot, dal porto e dai centri sono decine i minori che si allontanano ogni settimana, macinando chilometri di strada per giungere alla stazione di Catania, sottraendosi ad un sistema che invece che proteggerli ne provoca spesso la fuga. “L’unico motivo per cui sono ancora qui è legato al motivo della mia fuga, cioè la mia malattia”, ci dice S., trentenne nigeriano alloggiato presso il Cas di Marina di Modica gestito dalla Cooperativa Azione Sociale. “Tante cose a voi sembrano impossibili, ma in altre parti del mondo esistono, come il non potersi curare se non si hanno soldi. Per questo che sono scappato e ora mi trovo intrappolato qui, senza potermi muovere e pure con poche possibilità di parlare.” - continua - “L’unica operatrice che parlava inglese del nostro centro è stata licenziata, quindi mi capisco solo con alcuni altri ragazzi. Forse andremo a scuola sì, ma intanto viviamo in mezzo al nulla e l’unica distrazione è il cellulare. Io ho ricevuto un po’ di attenzione dagli operatori nel momento del mio ricovero, ma una volta tornato le mie richieste di medicine e spiegazioni sono cadute nel vuoto come prima; sono diventato di nuovo solo uno dei 40 utenti che affrontano la giornata con la preoccupazione dei documenti e del lavoro e la notte non dorme per lo stesso pensiero fisso, mentre le mosche e gli insetti ci assalgono letteralmente”.
S. ha assistito quest’estate all'allontanamento dal centro di diversi suoi compagni, ai quali è toccato un provvedimento di revoca dell’accoglienza, prassi di cui in molti casi si abusa per l’incapacità di gestione dei conflitti nei centri, soprattutto quando gli “ospiti” sono molti. Per i gestori non si pone nemmeno il numero delle presenze, e quindi delle entrate, perché di migranti ne continuano ad arrivare. “Da parte mia penso che il peggio è passato, ma sono pure sempre più convinto che anche qui i diritti non sono garantiti ma da conquistare. Noi migranti siamo una merce e il mercato è grande.”
Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus