Foto: Lucia Borghi |
L’edificio è molto grande, dotato di diversi spazi comuni, una sala tv, una sala mensa, un soggiorno, una lavanderia e ampi spazi aperti tutt’intorno tra cui un orto a disposizione degli ospiti. Le stanze da letto sono sette, ognuna con tre letti e bagno in camera, abbastanza spaziose e alcune dotate pure di un piccolo terrazzo. Avvicinandomi all’edificio noto subito le numerose biciclette, usate dai ragazzi per spostarsi in città, e un grande silenzio, interrotto solo dal ronzio di una radio e della tv accesa. Vengo accolta dalla coordinatrice, raggiunta da un’operatrice in un secondo momento, che mi illustra la situazione del centro. Al CAS lavorano quattro operatori, un cuoco ex ospite ora assunto con regolare contratto e residente nella struttura e un’addetta alle pulizie. Gli operatori parlano almeno una lingua tra inglese e francese se non entrambe, come la coordinatrice, che è anche counselor. Per l’assistenza legale ci si avvale della collaborazione di tre avvocati, mentre il team di Msf e di Medu fornisce un supporto psicologico per chi ne manifesta la necessità, provvedendo anche alle certificazioni mediche da esibire in Commissione qualora ce ne fosse l’esigenza. I migranti ospitati attualmente hanno situazioni molto differenziate e provengono principalmente da Mali, Costa d’Avorio, Senegal, ma pure Nigeria, Gambia e una ragazza dal Marocco. Due di loro stanno al centro da ben due anni, ora in attesa della conclusione del loro ricorso in quanto destinatari di un diniego. La maggior parte degli altri ha appena avuto l’audizione in Commissione o è in attesa della convocazione. Gli ultimi arrivi risalgono ad agosto di quest’anno e per chi è entrato al centro in luglio l’audizione è già stata fissata per novembre, un’attesa limitata se paragonata ad altri CAS. “Appena c’è un ingresso ci attiviamo con la Questura e la Prefettura per il completamento dell’identificazione e la compilazione del modello C3. Mediamente dopo un mese i ragazzi hanno già l’attestato nominativo con il quale procediamo subito per avere codice fiscale e tessera sanitaria, infatti hanno tutti il medico di base, con cui si è ormai instaurato un rapporto di massima fiducia e buona collaborazione”, mi dice la coordinatrice. In struttura è presente ora una ragazza incinta, per la quale si sta già cercando una sistemazione idonea, predisponendo nel frattempo tutti i controlli sanitari necessari grazie appunto alla disponibilità mostrata dai medici e ad una stima reciproca instauratasi nel tempo. Sono buoni anche i rapporti con gli insegnanti di italiano del territorio: “Noi teniamo un corso di italiano due volte a settimana ma da quest’anno gli insegnanti di una scuola vicina si sono resi disponibili ad effettuare le lezioni direttamente qui e a breve attiveremo un corso di alfabetizzazione e uno più avanzato, che permetterà ai ragazzi di avere la certificazione L2 e poi la licenza media” continua l’operatrice. “Nel nostro piccolo e con molta fatica cerchiamo di proporre ai migranti diverse attività puntando ovviamente su quelle più utili per la loro integrazione, come l’italiano, anche se non tutti vogliono seguire il corso. Appena possibile partecipiamo però anche ad eventi in collaborazione con alcune realtà locali, come le giornate organizzate da Legambiente oppure le serate musicali e di festa. Ci piacerebbe fare di più ma le nostre risorse sono limitate, anche perché stiamo parlando di un CAS, e le cose da seguire sono davvero parecchie, soprattutto perchè vogliamo garantire un’adeguata tutela individuale agli ospiti e confrontarci quotidianamente con loro. Riteniamo poi indispensabile che i ragazzi abbiano anche degli spazi propri”. Ogni dieci giorni viene erogato il pocket money in contanti di 2.5 euro giornalieri, anche se a breve si seguiranno le nuove disposizioni della Prefettura che prevedono l’erogazione quindicinale in giorni prestabiliti.
Alcuni ospiti iniziano ad affacciarsi alla sala e reclamano attenzione, alcuni passeggiano all’esterno, altri riparano le bici. Vengo affiancata da una giovane ragazza nigeriana che mi mostra la sua stanza e mi parla un po’ delle sue giornate: “Sono qui da sei mesi e mi trovo bene. Mi piace pure andare a Modica per fare un giro in città, nel pomeriggio. L’unica cosa è che il tempo non passa veloce e non sono ancora riuscita ad incontrare amici. E del mio paese non voglio sentire più nessuno”. “All’inizio è così, uno pensa solo ai documenti e il tempo non passa mai” mi conferma anche il cuoco che è stato ospite prima in una struttura gestita sempre da questa cooperativa: “Io mi sono subito proposto per dare una mano alle persone che cucinavano lì, anche perché capivo che il cibo preparato non piaceva agli ospiti, non eravamo abituati al cibo italiano. Cucinare con loro mi ha permesso di non pensare sempre ai miei documenti e poi sono stato fortunato, perché quando hanno aperto questo centro mancava un cuoco e hanno scelto me”. In cucina è affisso un menù settimanale molto vario ed equilibrato, che il cuoco sceglie e concorda con gli ospiti “so che questo può diventare un buon lavoro, infatti voglio formarmi e fare altri corsi, così potrò pure conoscere nuove persone”. Il desiderio di avere più contatti sul territorio è comune anche ad altri ospiti che raggiungo nella sala tv. B., che ha ricevuto da poco il diniego dalla Commissione, mi confida di provare vergogna a parlare italiano: “Io capisco ma non so parlare bene, quindi sto zitto. Il problema è che non ho amici italiani, sennò imparerei. Ora mi stanno cercando un avvocato e so che potrò fare ricorso perché voglio rimanere in Italia e avere i documenti. Ma la mia preoccupazione è come rimanere, se non parlo con gli italiani potrei essere qui ma pure in un altro posto e non cambierebbe niente” Qualche mese fa B., con altri ragazzi, ha partecipato ad una serata di festa e musica in città (Arte migrante, organizzata al caffè letterario Hemingway) e in quell’occasione qualcuno gli ha regalato una chitarra, che ora suona spesso. “Cose così sono belle, perché io cerco le persone ma anche gli italiani devono cercare noi, come alcuni qui stanno facendo, altrimenti non ci incontreremo mai” commenta un suo amico. “So che ci vuole tempo ma almeno si inizia”. Ma in quanti, verrebbe da chiedere, capiscono l’importanza e hanno la volontà di fare questo? Quanti anni dovranno ancora passare perché ci si accorga che le prassi d’accoglienza o dette tali con cui molti riempiono quintali di carte e altrettanti fatturano milioni di euro, sono solo parole se non seguite da garanzia dei diritti e convivenza quotidiana?
Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus