venerdì 1 novembre 2013

Noi dimenticati a Lampedusa

L'Unità, Flore Murard-Yovanovitch - Quasi un mese dopo, i sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre scorso sono ancora a Lampedusa, sull’isola che ogni giorno ricorda loro il trauma vissuto, vicini al mare, da cui vorrebbero liberarsi per essere trasferiti al più presto sulla terraferma, lontani dalle onde. Nel cortile del centro Imbriacola, dove giungono nuovi migranti, i superstiti della tragedia collettiva giacciono su materassi sotto tetti di plastica, senza accoglienza, malgrado la sfilata di politici italiani ed europei tra pianti e promesse. Johannes mi chiede: “Perché siamo ancora qua, un mese dopo la strage? Perché non abbiamo ricevuto nessuna protezione da parte dell’Italia?”. Petros (nome di fantasia) dichiara: “Vogliamo che sia fatta luce sulle vere dinamiche dell’incidente. Perché, dopo l’allarme, per due ore non siamo stati soccorsi anche se costeggiati da altri pescherecci?”. Quei 108 superstiti rimasti chiedono di essere trasferiti al più presto tutti insieme, perché ormai sono legati da quell’esperienza drammatica, ma le loro richieste all’Ufficio Immigrazione sono rimaste finora senza risposta.
Come il fax che avevano mandato alla Prefettura di Agrigento per partecipare ai funerali dei loro parenti, coniugi e fratelli il 21 ottobre scorso. Non trasferiti. Di fronte alla morte, lo Stato italiano non ha consentito a quegli uomini un ultimo saluto, potersi raccogliere sulle salme, seppellire i propri morti.

E’ questa la vera storia di quei giorni: l’estrema violenza istituzionale che si è compiuta sulla pelle di quei migranti, di fatto considerati di serie B – meri corpi – derubati della basilare esigenza umana di un rituale. La grottesca sceneggiata dei funerali di Stato senza bare né parenti, trattenuti sull’isola, o con bare spostate come pacchi all’insaputa dei parenti, o ancora l’oscena idea-beffa, per fortuna poi scartata, di un maxi-schermo in diretta… Dopo la protesta, loro hanno celebrato una cerimonia spontanea sulle rocce della Guitjia.

Gemal ha perso il fratello minore, sorridente nelle foto scattate a Khartoum, prima di affrontare il deserto, che fa scorrere sullo smart phone. La foto si è salvata dalle onde grazie a un memory stick ficcato nella tasca dei pantaloni. Teklom, invece, della giovane moglie non ha nemmeno un ricordo, nulla, e, ancora oggi, non sa nemmeno in quale cimitero dell’Agrigentino sia stata seppellita. Se riuscirà a recarsi alla Questura di Agrigento, là gli comunicheranno il nome di un paesino siciliano dell’entroterra che scribacchierà su un pezzetto di carta per poter finalmente, dopo un mese, raccogliersi sulla sua tomba. Ma cosa avverrà agli altri se, come probabile, verranno reclusi nei centri di cosiddetta accoglienza sparsi in Italia?

Quei giovani adulti hanno incubi sull’accaduto in mare, episodio drammatico che si è aggiunto alle violenze subite in Libia. Molti di loro si svegliano di notte, il loro ciclo sonno-veglia è alterato. Lilian Pizzi psicologa lavora al centro. Coordinatrice del progetto di Terre des Hommes “Faro3” – progetto psicologico e psicosociale per i minori stranieri non accompagnati e le famiglie con bambini – racconta che “permanendo nello stesso luogo della tragedia, il dolore si riattualizza e si inasprisce ogni giorno che passa. Mi permetta questa metafora: sarebbe come vivere un mese nella stanza dove è morto la propria moglie o il proprio fratello, senza poterne uscire. E’ auspicabile che i sopravvissuti possano lasciare l’isola il prima possibile anche per questo. Nel loro caso la ferita ha una doppia valenza, una individuale e una collettiva. Per i superstiti non avere potuto partecipare ai funerali dei propri cari, rituale universalmente indispensabile, non ha consentito una giusta separazione dalla morte”.

Lo stress passato riguarda anche l’incertezza dell’immediato futuro. La loro preoccupazione più grande è quella del prelievo delle impronte digitali, leitmotiv che sento ripetere a via Roma, dove di giorno cercano di respirare fuori dal campo di Imbriacola. Le impronte significherebbero essere bloccati in Italia, senza poter raggiungere i parenti nei paesi nord europei, Svezia, Norvegia e Gran Bretagna. Quasi tutti, uomini e donne, anche giovanissimi, sono ex soldati arruolati di forza per periodi illimitati di tempo, e raccontano della militarizzazione eccessiva che colpisce il tessuto della società eritrea, della paura, della mancanza di libertà.

Sognano la Svezia. Ma confessano che per arrivarci saranno costretti a migrare nascosti verso il Nord Europa, rischiare ancora, dopo il Mediterraneo, fuggire ancora e ancora. Mentre scrivo, barconi giungono nel porticciolo di pescatori di Lampedusa: eritrei che fuggono ogni giorno il regno del terrore che è diventato l’ex colonia italiana. Le cifre sono ben diverse dalle alcune centinaia di profughi riportate lo scorso mese come top news. Secondo l’agenzia per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), nel 2012 sono fuggite  dall’Eritrea 305.723 persone, e quelli che ogni mese lasciano il paese sono tra i due e i tremila. Un esilio politico, la fuga di un popolo perseguitato, a cui si aggiunge il rinculo di una storia coloniale ancora tabù, da cui la fretta di cancellare il problema… Ma questa sporca coscienza italiana, malcelata da effimero sentimentalismo, non potrà a lungo nascondere che le traversate hanno ragioni e nomi, accordi italo-eritrei, complicità tra Stati, leggi migratorie: tutte cause politiche.



Pubblicato nell’edizione nazionale dell’Unità del 31 ottobre 2013, p.12