martedì 9 luglio 2013

Dopo gli sbarchi il calvario tra i binari della stazione

«Sono arrivato a Linosa, nessuno mi ha preso le impronte per tre mesi. Nel frattempo sono andato a lavorare a Rosarno, ma per sei anni sono stato senza documenti, nessuno mi ha chiesto se ero rifugiato»

Roma, viaggio tra i richiedenti asilo: “Viviamo come animali in strada”
flavia amabile, roma
Dopo Lampedusa può esserci di tutto: le notti trascorse in una nicchia accanto al binario di una stazione a pochi passi dai treni che sfrecciano, i pomeriggi interi in un parco distesi sui cartoni che faranno da materasso di notte. Dopo Lampedusa può esserci di tutto ma troppo spesso per i rifugiati che sbarcano sull’isola non c’è la fine di un incubo come speravano. C’è solo la fine delle speranze.

Non esiste solo Lampedusa come luogo di sbarco. Si può arrivare a Pozzallo, a Linosa o a Bari: dipende dal punto di partenza e dagli itinerari collaudati nel corso degli anni dagli squadroni di trafficanti che hanno fatto dei rifugiati una delle tante merci di contrabbando per i loro lauti guadagni. Ma è un dettaglio. Ovunque si arrivi da quel momento in poi la vita assume i contorni sfumati dell’indifferenza, del nulla che circonda i rifugiati in Italia. Diventano dei richiedenti asilo, una formula burocratica per definire molto spesso nient’altro che loro inesistenza. 

Vengono prese le impronte digitali, certificata la loro presenza, e a quel punto devono rimanere all’interno dei confini. Secondo la legge dovrebbero essere accolti nel sistema Sprar gestito dal Ministero dell’Interno in convenzione con l’Anci. Ma il sistema prevede nel 2013 solamente 3.700 posti che dovrebbero arrivare a 5mila ma comunque largamente insufficienti rispetto ai 7400 richiedenti asilo arrivati solo nei primi sei mesi dell’anno secondo le stime dell’Alto commissariato per le Nazioni Unite per i Rifugiati. Chi resta fuori può essere accolto nei Cara, Centri allestiti in strutture in passato destinate a tutt’altro, ma soltanto per un massimo di 35 giorni. Chi non ottiene né l’assistenza Sprar né quella dei Cara dovrebbe ricevere un contributo economico. 

Questa è la legge. La realtà ha meno sigle e strutture di quante non siano scritte nella fredda precisione delle leggi. Il Cir, il Comitato italiano rifugiati, denuncia: «Mai visto distribuire contributi». Non distribuiscono nemmeno informazioni, raccontano loro, i rifugiati, figurarsi i soldi! 

Mahmoud è fuggito dal Mali in guerra, è rimasto in un campo nelle Marche per due anni poi gli hanno detto che avrebbe chiuso e che doveva arrangiarsi. Vive da un anno nei giardini di Colle Oppio: «Non posso tornare a casa, non posso andare via né avere un lavoro. Posso solo stare qui». 

Sharif, 20 anni, afghano, da due anni è uno dei disperati che dormono accanto al binario 1 della stazione Ostiense rischiando di morire ogni notte sotto un treno invece che per un colpo di fucile: «Viviamo come animali in strada. Siamo venuti per vivere meglio ma così è altrettanto pericoloso, è come l’Afghanistan. Perché l’Italia ha preso le mie impronte? Perché non mi hanno lasciato andare?». 

Non tutti si perdono. Qualcuno ce la fa anche se non è allo Stato che deve dire grazie ma alle organizzazioni che si occupano di rifugiati. Youssef, 31 anni, dall’Afghanistan. «Da solo non sapevo nulla, sono stati i ragazzi che vivevano alla stazione Ostiense a dirmi come fare richiesta. La Comunità di sant’Egidio ha fatto il resto». Ad Hamgour, 35 anni, originario dell’Eritrea, a Crotone hanno messo un biglietto di treno in mano. «Mi hanno detto: qui alla stazione di Crotone non deve rimanere nessuno, a Roma dovete andare. E io ho detto: ma Roma è una capitale, come faccio?». È finito in strada, prima alla stazione Termini poi dietro la stazione Tiburtina insieme ad altri eritrei. Se non ci fosse stata la Comunità di sant’Egidio probabilmente sarebbe ancora lì. Jarrah Jawuoy, 33 anni, è fuggito dal Mali in guerra. «Sono arrivato a Linosa, nessuno mi ha preso le impronte per tre mesi. Poi sono andato a lavorare a Rosarno ma per sei anni sono stato senza documenti, nessuno mi ha chiesto se ero rifugiato o altro». Dawood, 28 anni, originario dell'Afghanistan: «A Roma ci sono 10mila persone in strada, molti sono rifugiati e hanno il permesso di soggiorno ma dormono e mangiano in strada. Nessuno li aiuta: così i problemi dei rifugiati aumentano invece di diminuire».