“L’Europa parla dei migranti come rifugiati solo quando sono distanti, ancora nei paesi di transito o dove imperversa la guerra. Quando riusciamo ad oltrepassare le frontiere diventiamo subito delle cifre e di noi si discute solo come di un problema”. L. viene dal Senegal e ha poco più di venti anni, di cui gli ultimi cinque spesi in viaggio per raggiungere la Fortezza Europa, dove è arrivato tre anni fa. Scandisce le parole del suo discorso cercando di mantenere compostezza e calma, anche se il tono concitato fa trasparire la rabbia, la frustrazione ed il dolore che quotidianamente si trova ad ingoiare.
Poche frasi che descrivono cosa sono realmente le politiche europee di gestione del fenomeno migratorio: identificazione, selezione, classificazione, controllo, esternalizzazione delle frontiere. Recentemente Frontex ha duramente attaccato anche le missioni umanitarie che si impegnano a salvare vite umane in mare. Chi fugge non ha vie legali per farlo e continua a morire prima di raggiungere un’Europa sempre più blindata, dove la xenofobia e barriere più o meno visibili sembrano moltiplicarsi molto più velocemente che i gesti di solidarietà.
I politici hanno fretta di firmare accordi con i paesi terzi per selezionare ancora di più i profughi in arrivo, di cui la nostra economia ha comunque sempre “necessità”, per esternalizzare le frontiere e rimandare nelle mani di torturatori e dittatori chi riesce a liberarsene dopo mesi o anni. Via libera quindi ad accordi con la Guardia Costiera Libica, con regimi dittatoriali come quello sudanese ed altri capi di Stato corrotti e pronti a firmare patti ad insaputa dei loro stessi connazionali. I diritti umani diventano carta straccia, nel silenzio assordante dei media. Si disserta su migranti economici e non, rimpatri, trafficanti e presunti scafisti. Non una parola sulla scomparsa della libertà di movimento per milioni di persone e poche righe spese per i morti che hanno trasformato il deserto ed il Mediterraneo in grandi cimiteri. Le migrazioni forzate diventano un flusso, i numeri rimangono decontestualizzati, le metafore depersonalizzanti si moltiplicano, i diversi motivi della fuga e le esperienze di violenza che la accompagnano restano invisibili. L’informazione arriva per slogan e non si fa mai chiarezza sulle responsabilità dei diversi attori che agiscono in questo scenario a livello internazionale, nazionale e locale. Non far conoscere per non far comprendere, così da mantenere il sistema attuale e non agire pensandone uno diverso.
In mare si continuano a raccogliere cadaveri, ma si muore anche alle frontiere del Brennero e di Ventimiglia, perché dove la libera circolazione è consentita anche alle merci, quando si tratta di profughi si parla invece di controllo e sicurezza. Ormai ogni settimana giungono nei porti siciliani salme di uomini, donne e bambini, come il piccolo morto subito dopo la nascita, arrivato ad Augusta martedì scorso. I sopravvissuti riferiscono di viaggi intrapresi su gommoni con condizioni meteo pessime e mare molto agitato. In diversi casi, come negli ultimi due sbarchi avvenuti a Pozzallo ed Augusta, raccontano di altri dispersi in mare, nuove vittime spesso senza volto e senza nome. Le operazioni di salvataggio vengono effettuate ormai perlopiù da navi commerciali o della Marina Militare, con trasbordi a volte molto lunghi tramite rimorchiatori, e senza una prima assistenza a bordo degna di questo nome. In pieno inverno, molti dei 600 migranti arrivati il 14 dicembre ad Augusta a bordo della nave Aviere hanno potuto ricevere dei vestiti solo dopo le lunghe procedure di preidentificazione, per poi passare la notte stipati nella tendopoli del porto senza avere né coperte né cibo a sufficienza. Uomini, donne, minori salvi per miracolo che hanno visto altri soccombere in mare. Non avremo mai foto o resoconti di queste scene, ma discorsi retorici sulla “macchina organizzativa che si attiva per l’accoglienza” e le solite postille sullo stato emergenziale che ormai non inganna più nessuno, ma lascia ancora molti all’oscuro delle manovre politiche ed economiche che si giocano sulla pelle dei migranti. A subire trattamenti disumani sono i profughi che le nostre leggi inchiodano in uno stato di ricattabilità e silenzio, non cittadini italiani che potrebbero rivendicare il loro stato di persone private dei diritti fondamentali.
Sempre preoccupante rimane la situazione all’hotspot di Pozzallo, dove continuano ad essere alloggiati anche i superstiti degli ultimi tragici sbarchi e proseguono i trasferimenti verso il Cara di Mineo, emblema di ciò che si può definire business e non accoglienza. All’interno del Cara i migranti appena giunti, quelli in attesa di relocation, i “testimoni” interrogati per fermare i presunti scafisti e coloro che attendono i documenti da anni, sono accomunati dalla medesima situazione di abbandono ed isolamento. Vivere in migliaia in un “ghetto” creato a debita distanza dalla popolazione locale si traduce nell’impossibilità di intraprendere dei percorsi di interazione ed inclusione reale, nel rischio costante di divenire facile preda di reti di sfruttamento e violenza e combattere ogni giorno contro l’alienazione. “Se prima cercavo di avere i documenti ora provo solo a non impazzire”, ci ha detto uno dei ragazzi alloggiati qui da 14 mesi, “è solo questione di fortuna poter vivere senza la paura di essere buttato sulla strada da un momento all’altro”. Il Cara di Mineo è al centro di indagini da parte della Procura da più di due anni, ma nei media se ne parla principalmente quando qualche fatto di cronaca coinvolge i profughi. Inutile dire che i discorsi costruiti sul connubio tra profughi, minaccia e violenza non sono mai sottoposti ad un’adeguata decostruzione che porti ad analizzare il contesto e le circostanze in cui i fatti si sviluppano.
Facile e comodo scaricare colpe sui migranti e rimuovere dalla memoria collettiva gli atti illegittimi compiuti dalle nostre istituzioni. Lo vediamo anche nelle innumerevoli interazioni quotidiane che osserviamo all’interno dei centri: “Loro (i migranti) si dovrebbero calmare, hanno troppe pretese”; “Sono giovani, dovrebbero darsi da fare e invece se ne approfittano”; “Dovrebbero ringraziare già per quello che hanno”, reclamano molti operatori. Facile dirlo senza riconoscere di aver impostato una relazione asimmetrica ed essere parte di un sistema di cosiddetta accoglienza che è palesemente fallimentare, pensato troppo spesso secondo logiche di profitto ed assistenzialismo e non di autodeterminazione e tutela. Si parla per “categorie” e non si dà voce alle singole persone.
“Sono stanco ma felice” ci dice invece E., sedicenne del Camerun rimasto tre settimane all’hotspot di Pozzallo e da alcuni mesi trasferito in uno dei nuovi centri per minori non accompagnati, aperti sulla scia dell’emergenza nel ragusano. “Stare in Italia è difficile anche se io da solo sto studiando la lingua, perché non ho possibilità di frequentare una scuola tramite il centro. Sinceramente non capisco molto delle leggi e di quello che mi aspetta e questo mi rende molto nervoso. È faticoso vivere in uno stanzone seminterrato senza riscaldamento, senza nemmeno un bus che ci collega ad un paese vicino e soprattutto senza nessuno con cui poter scambiare due parole su come si vive qui. Però sto bene, sono arrivato fin qui e per questo so che non mi farò scoraggiare”. L’Europa e l’Italia alzano muri, ma chi non ha scelta continuerà a cercare di oltrepassarli.
Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus