venerdì 24 luglio 2015

Parla che non ti ascolto: il racconto della solitudine nei CAS

Quando arriviamo a Menfi presso il CAS “Gianturco” della cooperativa Quadrifoglio, incrociamo i Carabinieri nel cortile. Succede spesso, così ci avevano già avvertito gli operatori, che gli ospiti (al momento 12) richiedano l’intervento di Carabinieri  e Polizia. La situazione nella piccola struttura è tesa. Salutiamo, ma a malapena riceviamo una risposta. Ci vogliono parecchi minuti per attirare l’attenzione su di noi e radunarli nel salotto con l’aiuto degli operatori.
Noi conosciamo i nostri diritti, e sappiamo anche che non vengono rispettati. Per questo parliamo con i Carabinieri e la Polizia, perché loro sono quelli che dovrebbero proteggerci, no? Ma o ci dicono di avere pazienza, o che non possono risolvere i nostri problemi, oppure non ci ascoltano nemmeno. Ieri siamo stati dai Carabinieri, abbiamo parlato con il Commissario, lui ci conosce, sa la nostra storia, lui stesso ha detto di rivolgersi a lui per qualsiasi cosa. Ha detto che sarebbe passato stamattina qui al centro per parlare con noi, e invece è arrivato un suo sottoposto. Non è la stessa cosa, lui non ci conosce e ci ritroviamo a ripetere le cose mille volte senza mai raggiungere qualcosa di concreto”. Sbarcati a P. Empedocle nel novembre 2014, da 9 mesi questi ragazzi, prevalentemente originari dell’Africa occidentale francofona, aspettano la data di  audizione in Commissione. All’inizio, erano pazienti. Avevano un buon rapporto con gli operatori, c’era un clima di fiducia, di collaborazione. "E’ stato così fino a quando loro [ndr, gli operatori] hanno smesso di garantirci i nostri diritti, dicendo che non potevano aiutarci a risolvere i nostri problemi”. Raccontano, si interrompono, discutono tra di loro, ricominciano a raccontare. “Settimana scorsa siamo andati ad Agrigento a ritirare i permessi di soggiorno rinnovati. Dovevamo firmare per ritirarli, ma all’inizio ci siamo rifiutati, volevamo prima sapere quando ci sarebbe stata la Commissione per noi. Ci hanno detto di fare come volevamo, se non firmavamo non potevamo ritirare il documento. Abbiamo cercato di parlare con i poliziotti, spiegare la nostra situazione, la nostra disperazione. Non ci hanno voluto ascoltare, allora ci siamo seduti nell’atrio ad aspettare di essere ascoltati da qualcuno. Ci hanno detto che non potevamo restare lì, che dovevamo uscire. Noi volevamo solo parlare, volevamo solo qualcuno che ci ascoltasse, ma ad un certo punto ci hanno buttato fuori con la forza. Alcuni di noi sono caduti a terra, li hanno tirati su e li hanno buttati fuori. Cosa vogliono dire quelle uniformi se poi veniamo trattati così?” Poi chiedono conferma se c’è una Commissione ad Agrigento e se ha già iniziato a lavorare. “Lì in questura un poliziotto ha detto che ad Agrigento non c’è nessuna Commissione, che si fa tutto a Trapani. A chi dobbiamo credere ora? Lui è uno con l’uniforma, perché dovrebbe dire una bugia?”. Il peso delle parole dette da uomini in divisa non è affatto da sottovalutare. Che siano dette per ignoranza, per disinteresse, per leggerezza o con l’intenzione di placare tensioni: queste frasi sono pure bombe a orologeria e nella maggior parte dei casi è appurato che aggravano drasticamente la situazione psicologica dei migranti nonché la relazione, già incrinata, tra quest’ultimi e i loro operatori, i quali, a loro volta, vengono etichettati come coloro che “non riescono a prendersi cura di noi”, che dicono bugie, che non sanno fare il loro lavoro.

Da ciò che raccontano, diviene chiaro come inconsciamente i ragazzi sappiano che la colpa della loro frustrazione, della loro attesa, della loro disperazione è del sistema mal funzionante e malsano italiano, di cui parte attiva sono le stesse autorità. Quando glielo facciamo notare, annuiscono. Ma le parole “sistema” e “autorità” sono parole vuote, astratte. I ragazzi hanno bisogno di una persona reale con cui interfacciarsi, con cui dialogare. Il che, a livello pratico, quotidiano, è l’operatore, che, ritenuto altrettanto responsabile e colpevole per la situazione di sospensione in cui si ritrovano, diventa inevitabilmente il capro espiatorio, il magnete della loro rabbia. Pensano che un trasferimento possa giovare alla loro situazione in qualche modo, sebbene alcuni dicono che amano stare a Menfi e vorrebbero rimanere. D’altronde, la popolazione non pare essere disposta ad entrare troppo in contatto con loro, la disperazione è al limite della sopportazione, come anche la loro rabbia. “C’è un motivo se siamo scappati dai nostri paesi. Se andasse tutto bene, noi saremmo rimasti. Abbiamo fatto un viaggio terribile, che nessuno di voialtri può anche solo immaginare. Siamo arrivati qui pensando di avere protezione e diritti. Ma è meglio morire con dignità che vivere in questa situazione”. La maggior parte dei ragazzi vuole ricevere un trasferimento oppure andarsene. Dicono di avere già avvisato le autorità che succederà, così nel momento dell’esodo, nessuno potrà dirsene sorpreso. Proviamo a spiegare loro che il trasferimento potrebbe essere un terzo trauma per loro, dopo quello di dover lasciare il proprio paese e quello di aver già aspettato 9 mesi per una data. Inoltre, non è detto che da altre parti la situazione sia meglio e più veloce, anzi. C’è il rischio che debbano ricominciare l’iter da zero, allungando ancora di più la loro attesa. Ma loro sono convinti, non vogliono restare, sono stanchi, arrabbiati, desolati. Sono determinati, nei loro occhi c’è una luce che fiammeggia. Sono vivi e vogliono vivere, ormai non hanno più niente da perdere. Ringraziano per essere andati lì a trovarli, per averli ascoltati, per avere capito le loro ragioni: “Più di così non potete fare, lo sappiamo. Grazie lo stesso”.

La stessa benedizione non viene concessa agli operatori del centro però, che subiscono e riportano forti tensioni durante lo svolgimento del loro lavoro. Saluti mancati, risposte brusche, minacce orali (“vado dai carabinieri e ti metto nei guai”), sfiducia, frustrazione. “Ci sentiamo lasciati da soli dalle autorità”, dice una responsabile, “ma anche dalle organizzazioni umanitarie, che partono sempre dal presupposto che i migranti siano le vittime e gli enti gestori i carnefici”. Il “male” di gestori e utenti è comune: il sistema, con tutti gli attori che ne fanno parte. Eppure, coloro che si scannano alla fine sono i primi due. Il risultato? Poca affluenza ai corsi di italiano, astensione alle attività organizzate dall’ente gestore (come per esempio il boicottaggio della festa per la fine del Ramadan), rifiuto di dialogo, atteggiamenti sprezzanti, litigi, silenzi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il “sequestro” degli operatori nel secondo centro Quadrifoglio a Menfi, il CAS “Sant’Antonio”. L’esasperazione dei ragazzi li ha portati a ricatti, azioni di sabotaggio (come il blocco delle auto degli operatori in modo che non potessero allontanarsi dalla struttura) e giusto ieri il sequestro degli stessi operatori per 5 ore in una stanza. Evento che ha portato la responsabile a richiedere al Prefetto la chiusura definitiva di entrambi i CAS. “Ci dispiace di essere arrivati a dover chiedere la chiusura dei centri, ma noi non ce la facciamo più. La situazione ormai è ingestibile e a volte abbiamo paura di andare a lavoro”. Un’operatrice dice di sentirsi umiliata dai ragazzi, che spesso non le rivolgono la parola se non per dirle di pulire il bagno o raccogliere la spazzatura che gli ospiti hanno deliberatamente buttato in cortile invece che negli appositi bidoni come tacita forma di ribellione.

Una situazione andata fuori controllo, proprio in due centri che, abitativamente e logisticamente, funzionavano nel complesso bene. Improntati più come residenza permanente che come centro emergenziale, le due strutture (spartane, ma in buono stato) ospitano al momento rispettivamente 12 e 17 ragazzi, seguiti da uno staff di circa 7 persone. Un mediatore è disponibile specialmente al momento dei collocamenti e dell’informativa legale, la psicologa a  chiamata, e ogni 10 giorni si tiene una riunione con operatori ed ospiti per fare il punto della situazione, con la partecipazione di un interprete, mentre lo stesso staff rimane raggiungibile telefonicamente anche di notte. L’erogazione del pocket-money di 2,50Euro/8 giorni è sempre stato regolare, come anche la distribuzione di vestiti, acqua minerale in bottiglia, kit igienici, ecc. (su firma dei beneficiari in ogni occasione, “sia a tutela degli utenti, che nostra degli operatori”). Inoltre, agli inizi di maggio sono stati obbligati dalla Prefettura ad accogliere due nuclei famigliari composti da una donna incinta e una coppia, con la moglie in stato di gravidanza altrettanto avanzato. Sbarcati a Lampedusa il 2 maggio, dopo il trasferimento a P. Empedocle, le due famiglie sono ospitate presso il CAS Sant’Antonio, in una piccola casetta adiacente l’edificio principale per rispettare sia per veitare la promiscuità che per garantire un minimo di privacy alle famiglie. A fine maggio, nel giro di una settimana, le due donne hanno partorito uno bimbo e una coppia di gemelli nell’ospedale di Sciacca. In quel momento non essendo ancora in possesso del permesso di soggiorno, i genitori non hanno potuto registrare i neonati all’anagrafe, né garantire loro l’assistenza del pediatra del SSN. Fortunatamente i bimbi sono stati seguiti a titolo gratuito dalla pediatra di fiducia di due operatrici. Da qualche giorno sono finalmente arrivati i permessi di soggiorno consentendo ai genitori di registrare i figlioletti. Ma i due nuclei familiari vivono ancora in un CAS. La responsabile denuncia di avere richiesto in diverse occasioni a prefettura, questura e Servizio Centrale il trasferimento in strutture più idonee ed adeguate nell’ambito del sistema Sprar. Eppure, dopo 3 mesi, ancora nessuna reazione. E di questi giorni la  notizia che il Servizio Centrale abbia trovato posto per il nucleo famigliare con i due gemelli, che dovrebbero essere trasferiti la prossima settimana. Per l’altra madre con neonato, invece, non è stato ancora trovato un alloggio adeguato. 

Caterina Botticelli
Borderline Sicilia Onlus