venerdì 24 aprile 2015

Quell'abbraccio tra due mondi sarà il nostro salvagente

Porto di Catania. Agosto 2014. Abramo cerca tra la folla il volto giovane di suo fratello. “È partito dalla Somalia, deve essere tra queste persone che stanno sbarcando, ma non mi posso avvicinare. Aiutami, ti prego”. Gli lascio il mio numero di cellulare e mi faccio largo tra la folla: stipati sulla nave della Marina Militare, allora ancora impiegata nell’operazione Mare Nostrum, ci sono circa duecento persone, subsahariani... anche somali! 
Milano. 20 aprile 2015. Vedo lampeggiare una chiamata sul mio cellulare, riconosco subito il numero. Mi sudano le mani ma so che devo mantenere la calma: +88216... sono le cifre di un Thuraya, il sistema satellitare installato sulle imbarcazioni di fortuna che da anni salpano dalle coste libiche nel tentativo di raggiungere l’Europa. “Help, help, there’s already water in the boat”. 

La comunicazione è disturbata, bisogna capire quante persone sono stipate sulla nave, quante donne, quanti bambini, da dove sono partiti. E bisogna fare presto, perché solo il giorno prima più di 800 persone sono state inghiottite da quel Mare che ci ostiniamo a chiamare Nostro, ma che in realtà è di tutti. Da quel momento il telefono squilla incessantemente, raccolgo tre numeri e chiamo la Guardia Costiera, mentre il grido di aiuto si fa sempre più insistente così come il mio senso di impotenza che lascia spazio a un grande sospiro di sollievo quando, il giorno seguente, scopro che tutte le imbarcazioni sono state tratte in salvo. 
Da quando ho conosciuto Abramo, ho ricevuto circa una decina di chiamate da cittadini somali in partenza dalla Libia. La Guardia Costiera italiana ne riceve ogni giorno, l’associazione WatchTheMed ha scelto volontariamente di farsi carico di questa grande responsabilità, monitorando le operazioni di salvataggio di queste migliaia di vite allo sbaraglio, la cui sopravvivenza non può essere basata sulla fortuna di avere il contatto giusto al momento giusto, o di intercettare un mercantile lungo la propria rotta. Nessuno può fissare i propri occhi nello specchio e affermare che a novembre 2014, alla luce della scelta di rimpiazzare l’operazione Mare Nostrum con Triton, e soprattutto nel non avere ancora aperto nessun canale legale per l’arrivo dei profughi,  il naufragio di sabato 18 aprile non fosse prevedibile. Così come prevedibile era l’esodo di centinaia di richiedenti asilo dai comuni di approdo alle più ambite mete europee, passando per il capoluogo meneghino che, troppo impegnato a “Nutrire il Pianeta”, si è dimenticato di fornire strutture adatte ad accogliere bambini, donne e uomini costretti a bivaccare nel mezzanino della stazione centrale o nei parchi di Porta Venezia. 
Milano. Stazione Centrale. 23 aprile 2015. Decine di ragazzi gettati sulle panche di marmo, parlano tra loro, si organizzano, sperano di trovare un posto dove passare la notte. Un gruppo di somali resta in disparte, Ahmed (nome inventato) parla inglese meglio degli altri, traduce il pensiero comune: “Siamo scappati dal nostro Paese per paura di essere uccisi, non avevamo altra scelta, altrimenti credi che ci saremmo buttati in mezzo al mare con quella barca?”. “In Libia ci hanno rubato tutto e ci hanno picchiati, non ci davano da mangiare” continua Ahmed. “Dopo qualche ora dalla partenza la nave ha iniziato a imbarcare acqua, abbiamo dovuto gettare l’acqua potabile in mare e utilizzare le bottiglie tagliate per respingere le onde dall’imbarcazione. Per fortuna avevo un numero di telefono che mi aveva lasciato un amico, ha risposto una ragazza”. “Quando è successo?” chiedo incredula. “Lunedì”. 
Non servono altre parole, ci guardiamo negli occhi e uniamo i nostri mondi in un lungo abbraccio.

Beatrice Gornati