lunedì 1 settembre 2014

Alla moschea di Catania i racconti di dolore e salvezza dei profughi siriani

Se gli stati del nord Europa si voltano dall’altra parte, ci sono anche giovani che vogliono far guardare i propri governi nella nostra direzione. È il caso di Anita e Maria, due ragazze norvegesi giunte in Italia per raccontare la storia di quei migranti che, in fondo, non fanno poi così paura.

Giungo insieme a loro alla moschea della Misericordia di Catania, in piazza Cutelli, intorno alle 11.30 di questa mattina. I responsabili ci invitano ad entrare in una saletta poco illuminata, dove una decina di uomini siriani stanno parlando tra di loro. Siedono su tappeti e materassi sparpagliati sul pavimento, c’è anche chi preferisce riposare. Chiediamo loro chi abbia voglia di raccontare la propria storia, ci scrutano guardinghi, vogliono sapere da dove veniamo e perché ci troviamo lì. “Non c’è nulla di cui parlare, solo di morte” esordisce il più anziano del gruppo. Si chiama Ibrahim, ha 57 anni ed è partito dalla Siria quindici giorni fa con due parenti minorenni: il ragazzo magro e sorridente che gli siede accanto e Mohammed, che è stato portato a Pozzallo. Vorrebbe trovarlo per portarlo in Svezia con sé, dove vive suo figlio. Ibrahim racconta di aver pagato 7500 dollari per raggiungere l’Italia. “Ci siamo imbarcati su un peschereccio di 20 metri, eravamo circa 220 persone. Non c’era cibo a sufficienza per la traversata, l’acqua sapeva di petrolio ma non avevamo scelta. C’erano molte famiglie, i bambini piangevano, molti stavano male e le onde sommergevano la nave di continuo; abbiamo passato giorni interi bagnati fradici senza poterci muovere”. Dopo dieci giorni in mare aperto sono arrivati i soccorsi, Ibrahim è stato portato con un elicottero a Catania e da due giorni vive nella moschea, ma sa che la nave è approdata venerdì nel porto di Pozzallo. “Per noi l’Italia è solo un luogo di passaggio, vogliamo andare a nord dove ci sono i nostri parenti, per questo non vogliamo farci identificare. Per favore, aiutatemi a ritrovare Mohammed”.

Nel frattempo c’è chi prende coraggio, vedo intorno a me occhi desiderosi di raccontare. Un ragazzo siro-palestinese si fa strada tra gli altri, anche lui si chiama Ibrahim, ha solo 22 anni. “Sono partito dalla Siria con otto amici 22 giorni fa, volevamo solo fuggire dalla guerra, avremmo fatto qualunque cosa”, e così è stato. “Dato che siamo nati in Palestina, veniamo perseguitati ovunque, anche il Libano ci è proibito, perciò siamo andati in Sudan e abbiamo raggiunto la Libia attraverso il deserto”. Il giovane Ibrahim racconta di aver passato cinque giorni a bordo di un Land Cruiser, venticinque persone schiacciate una sull’altra senza potersi muovere. “Avevamo sabbia ovunque, negli occhi, nel naso, nella bocca, ma non potevamo lamentarci!”. Nessuna sosta, a parte quelle destinate al rifornimento di carburante, ogni due o tre ore. “Quando siamo arrivati a Bengasi, delle persone ci hanno detto che avremmo raggiunto l’Italia via mare in 24 ore. Dopo 21 ore di navigazione, il capitano ha chiamato la Croce Rossa con un telefono satellitare perché non eravamo più in grado di proseguire, abbiamo dovuto richiamare sei volte prima che giungessero i soccorsi”, racconta il giovane siriano, che questa sera cercherà di spostarsi verso il nord Italia.

Chiediamo ai presenti se conoscessero gli organizzatori del viaggio, ma ci rispondono che tutto è avvenuto tramite passaparola. “Chi ha soldi paga senza pensarci due volte, la Siria era un paradiso prima della guerra, ora si tratta di scegliere tra la vita e la morte” confessano all’unisono i due Ibrahim.

Beatrice Gornati
Borderline Sicilia Onlus