giovedì 31 luglio 2014

Visita al centro per minori di Augusta

Davanti al centro di prima accoglienza per minori non accompagnati di Augusta sostano due camioncini dei carabinieri e almeno sei uomini siedono davanti al cancello e sorvegliano la struttura.
L’aria di confusione e disordine si respira già sulla soglia dell’edificio (ex struttura scolastica in via Dessiè). All’entrata una televisione accesa trasmette musica commerciale ad alto volume; alcuni ragazzi seduti su vecchie sedie scolastiche la guardano con occhi persi, senza prestare alcuna attenzione alle persone intorno a loro. Ci sono alcuni uomini della protezione civile, un’operatrice/assistente sociale, diversi ragazzi dello staff di Emergency e tanti ragazzini che entrano ed escono, corrono, riposano, ridono.

Il corridoio che comincia subito dopo l’entrata è costellato da brandine: ce ne sono tante, tutte in fila, tutte attaccate.
Gli uomini della protezione civile che in questo contesto lavorano come “operatori” in quanto la struttura è gestita direttamente dal Comune di Augusta, lavorano fino alle 22. Dopo di che i ragazzi sono lasciati soli senza nessun tipo di sorveglianza.
Attualmente nel centro vivono tra i 150 e i 200 ragazzi. Alcuni sono appena arrivati (2 giorni fa), altri stanno aspettando di essere trasferiti in una struttura più idonea già da diversi mesi.
Un uomo della protezione civile si offre di accompagnarmi a visitare la struttura. Camere e corridoi sono colmi di brandine alla rinfusa; molti ragazzini egiziani sono seduti nelle loro stanze, chiacchierano, giocano e fumano. Molti non dimostrano più di quattordici anni.
C’è un gran disordine ovunque: vestiti, spazzatura, coperte, cartacce… L’operatore che mi accompagna cerca di convincere i ragazzi a sistemare: “altrimenti vi rispedisco a Portopalo”, dice a un certo punto.
Mi spiega poi che alcuni di questi ragazzi erano stati trasferiti da Augusta a Portopalo e una volta là avevano implorato gli operatori di poter tornare al centro di Augusta. Nemmeno lui sa bene il perché ma da quanto ho capito l’atmosfera del paesino più a sud non piaceva a nessuno. “Forse le persone là sono più fredde e chiuse” mi dice lo stesso sorvegliante/uomo della protezione civile: “ad Augusta le persone sono gentilissime con i ragazzi. Cucinano per loro, li portano in giro, li vengono a trovare. Qui da sempre le persone sono abituate alla diversità perché essendoci un grande porto siamo sempre stati abituati a vedere stranieri per le vie del nostro paese”.
I ragazzi confermano la disponibilità e il calore dimostrato dal vicinato e dalla comunità di Augusta. 
Il rapporto con chi sorveglia sembra anche ottimo: gli uomini della protezione civile scherzano e ridono con loro. “Gli vogliamo bene come fratelli”, mi dicono, “e ci affezioniamo; tanto che quando li devono trasferire spesso ci dispiace”.
Nonostante l’indiscutibile importanza di un rapporto amichevole e vivace con il personale, si tratta di un centro di un centro creato per l’emergenza, e manca di quelle figure e di quei servizi che dovrebbero essere garantiti in tutte le strutture che accolgono minori non accompagnati.
Certo all’interno dello stabile lavora anche lo staff di Emergency, i medici dell’ASP accompagnati da mediatori culturali e persino delle insegnanti di italiano volontarie (che a quanto pare stanno facendo un ottimo lavoro),  ma ciò non toglie che i ragazzi rimangano per la maggior parte del tempo soli o comunque senza mediatori culturali o operatori preparati a loro disposizione.
Tra il resto in pochissimi hanno già cominciato le pratiche per ottenere i documenti.
Considerata questa cornice non mi stupisce che molti ragazzi abbiano deciso di allontanarsi dal centro e cercare fortuna da soli… In tanti sono stufi di aspettare e non sanno come occupare il tempo: non sono abituati a non fare niente tutto il giorno e a crogiolarsi nella passività del caldo estivo. “Sono stanco di dormire”, scherza un ragazzo nigeriano con cui mi fermo a chiacchierare nel corridoio.
Altri ragazzi affermano che, nonostante si ritengano fortunati ad avere un tetto sopra la loro testa e del cibo nei loro stomaci, le condizioni del centro sfiorano davvero l’indecenza: non ci sono prodotti per l’igiene personale a sufficienza, la dieta è secondo loro assolutamente inadeguata  e nemmeno vengono date loro schede telefoniche per chiamare casa. Due ragazzi che incontro in una via vicino al centro stanno andando a chiedere la carità fuori da un supermercato del paese. “È l’unica cosa che possiamo fare”, mi dicono, “così ci compriamo una scheda telefonica o qualcosa da mangiare. Altri cercano di guadagnare abbastanza soldi per poter andarsene.”.
Sono arrivati due mesi fa e ancora non hanno avuto la possibilità di chiamare casa. Sembrano tristi e sconsolati, ma ancora una volta, non possono fare altro che aspettare.
Irene Leonardelli
Borderline Sicilia