venerdì 4 luglio 2014

Visita al centro informale Umberto I di Siracusa

Oggi pomeriggio ho incontrato la referente locale di Siracusa e il coordinatore siciliano del progetto Polibus di Emergency. Il Polibus è un grande autobus rosso che funge da ambulatorio mobile. Uno di questi ambulatori è parcheggiato nei pressi del centro di smistamento di Siracusa Umberto I dal luglio scorso, quando gli operatori di Emergency si accorsero della necessità di un’assistenza sanitaria e di mediazione culturale costante presso questo centro informale di accoglienza.

Sul polibus lavorano attualmente un medico, due infermieri, cinque mediatori culturali e un logista-autista. Lo staff offre assistenza medica di base agli immigrati del centro tutti giorni dal lunedì al venerdì, escluso il mercoledì. Un giorno in settimana, infatti, il polibus si sposta al centro di Ausguta presso il quale sono collocati transitoriamente i minori non accompagnati. Altri medici volontari affiancano di tanto in tanto lo staff di Emergency; si segnala in particolare l’aiuto significativo di un dentista volontario.
I due operatori di Emergency parlano di una buona collaborazione tra lo staff di Emergency e i medici dell’ ASL che lavorano invece direttamente all’interno del centro. Di fatto sottolineano come da un anno a questa parte l’assistenza sanitaria generale all’Umberto I sia notevolmente migliorata, soprattutto grazie alle loro segnalazioni e richieste di intervento alla prefettura di Siracusa. Ci sarebbe un costante bisogno, però, di più mediatori culturali, dicono, e di più attenzioni presso il centro di smistamento per minori non accompagnati di Augusta.
Più tardi mi sono recata al centro Umberto I dove ho potuto raccogliere più informazioni sulla situazione del centro. Qui sono ora accolti circa 290 migranti, tutti uomini e per lo più di provenienza subsahariana.
Diversi migranti aspettano il loro turno di visita davanti al polibus, parcheggiato nel cortile più esterno della struttura. Seduti sotto un gazebo o su diverse sedie di plastica appena fuori dall’ambulatorio mobile, sonnecchiano sotto il cocente sole di luglio, parlano con le mediatrici di Emergency, aspettano.
Normalmente, mi spiega un agente in servizio, la polizia sorveglia l’entrata del centro e circa 20 uomini (poliziotti, carabinieri, finanzieri) si trovano costantemente presso il centro. Oggi sono tutti impegnati altrove, aggiunge, (ad Augusta forse) e per questo sono di sorveglianza solo in due.
Comincio a chiacchierare con i ragazzi che giocano a calcetto nell’atrio. Sono simpatici, incuriositi dalla mia presenza ma non troppo sorpresi. Mi dicono che vengono per lo più da Gambia, Senegal e Mali e molti sono arrivati più di cinque mesi fa. 
Mi sposto un po’ più in là e comincio a parlare con un altro gruppetto di ragazzi. Chiedono di me: da dove vengo, cosa sto facendo, dove vivo. Uno di loro si offre di accompagnarmi a fare un giro. Diversi ragazzi sono seduti sotto il sole, sul muretto che divide il cortile centrale dalla struttura circostante: chiacchierano, giocano a calcio, passeggiano. Sembrano tutti molto giovani: quelli con cui parlo hanno tutti tra i 21 e 25 anni. 
Una volta arrivata all’altezza dell’auto della polizia uno dei due poliziotti mi invita ad avvicinarmi. Gli spiego cosa sto facendo e mostro la lettera di presentazione di Borderline Sicilia. Il poliziotto mi da il permesso di visitare il centro e continuare la mia attività di monitoraggio, mi avverte però di non avvicinarmi a una delle ali del centro, dove, dice, “vi sono persone pericolose”. Chiedo che cosa intenda per “pericolose” e lui mi risponde che in quel punto della struttura vi sono gli ospiti malati di scabbia, i quali non posso uscire nel cortile per prevenire il contagio.
Continuo la mia visita accompagnata da uno degli ospiti, un giovane ragazzo gambiano. Mi racconta che nel centro non si vive male; il cibo è buono e loro possono entrare ed uscire quando vogliono.
Quando stiamo per entrare nella struttura stessa per visitare l’interno dell’edificio, un operatore del centro mi fa segno di andare nell’ufficio del direttore, dall’altra parte del cortile interno. Questo mi chiede spiegazioni sulla mia presenza. È gentile ma mi ricorda che non è permesso entrare in strutture d’accoglienza per migranti senza uno specifico permesso della prefettura, e sottolinea come questo non dipenda da lui.
Il poliziotto che prima mi aveva lasciato entrare mi accompagna fuori dal cortile principale del centro dove sosta il Polibus. Mentre camminiamo gli chiedo alcune informazioni sulla situazione del centro: mi dice che le cose vanno bene; che i ragazzi sono tranquilli e che non stanno affatto male. “Guarda”, mi dice “hanno anche il maxischermo per vedere le partite di calcio”, indicandomi un grande telo di plastica bianco affisso a una delle pareti del cortile.
Mi fermo un po’ a chiacchierare con i ragazzi in attesa di essere visitati, soprattutto con i Gambiani, con i quali posso comunicare in inglese. Altri intervengono con qualche parola in italiano, inglese o in francese. Sono contenta di poter comunicare con loro. Mi dicono che pochi italiani sanno l’inglese, anche tra gli operatori del centro.
Come mi era stato confermato nel primo pomeriggio dagli operatori di Emergency, le condizioni del centro non sembrano, tutto sommato, deplorevoli. I ragazzi sembrano tranquilli sotto il caldissimo sole estivo. Sono venuti per lo più soli, ma sembrano avere trovato buoni amici all’interno della struttura, così mi confermano.
Mi dicono che vogliono andare via dalla Sicilia, raggiungere l’Italia del nord e trovare un lavoro.
Ma, appunto, nonostante i centri di smistamento potrebbero ospitare i migranti per non più di 72 ore dopo lo sbarco, la maggior parte dei ragazzi con cui ho parlato vive nel centro già da alcuni mesi e non ha idea di quanto dovrà aspettare.

Irene Leonardelli

Borderline Sicilia Onlus