sabato 12 luglio 2014

Catania - Accoglienza zero: la vita dei migranti tra reclusione e abbandono

meltingpot - Un reportage dal Pala Spedini della rete antirazzista catanese di Davide Carnemolla
Rinchiusi e abbandonati. E’ questa ormai la sempre più diffusa strategia di “accoglienza” destinata ai migranti. 
E ne è l’emblema ciò che sta accadendo in Sicilia, e a Catania in particolare. Nel capoluogo etneo si sta di fatto normalizzando la negazione dei diritti dei migranti. In un mix letale di indifferenza, opportunismo e schizofrenia istituzionale si stanno progressivamente e inesorabilmente erodendo i più basilari diritti di chi arriva nelle coste siciliane. E’ sufficiente raccontare ciò che accaduto negli ultimi quattro giorni per avere un’immagine tanto chiara quanto preoccupante di tutto ciò.
Gli eritrei della nave “Chimera”: dalle mura del Palaspedini alla solitudine della stazione
7 luglio. Sono da poche ore arrivati al palazzetto dello sport di Catania chiamato “Palaspedini” 261 migranti - prevalentemente eritrei – sbarcati a Catania dalla nave “Chimera”. 
Gli attivisti della Rete Antirazzista Catanese arrivano intorno alle 19 e viene loro concesso (fatto non così abituale) di poter parlare con gli stessi migranti. La prima ad avvicinarsi a noi è una giovane donna con una bambina di un anno in braccio. Ci mostra un foglio che le hanno dato all’ospedale “Vittorio Emanuele” e nel quale le viene prescritto un farmaco per la figlia che ha la febbre alta. La donna giustamente ci chiede: “chi mi dà questo farmaco?”. Davanti al piazzale antistante il palazzetto inizia un triste teatrino tra i vari enti che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) occuparsi dei migranti: il Pronto Soccorso si occupa solo di casi di estrema urgenza, la Protezione Civile ci dice che non è compito loro, le Forze dell’Ordine idem finchè un funzionario della Questura non chiama la guardia medica. Ma intanto il farmaco per la bambina e altri beni di prima necessità siamo noi a comprarli.
Mentre aspettiamo la guardia medica (arriverà dopo due ore) e questo è quello che ci viene detto e che vediamo coi nostri occhi: ci sono quasi dieci donne di cui almeno tre in stato di gravidanza e tutte e tre in condizioni di salute molto critiche (due perdono sangue e hanno forti dolori e un’altra ha la febbre alta); molti eritrei lamentano dolori e problemi alla pelle e ci chiedono medicine e sapone; nessuno di loro ha potuto avvisare i familiari in Eritrea o in Europa né per poter dire di essere sopravvissuti né per poter comunicare alle famiglie di chi non ce l’ha fatta la morte dei propri cari; nessuno è stato informato riguardo le procedure d’asilo e i diritti basilari che spetterebbero loro; molti chiedono scarpe e anche vestiti perché quelli che hanno sono gli stessi con cui sono partiti dall’Eritrea. E poi, entrando nel palazzetto, sembra di stare in una sauna. Una gigantesca sauna dove sono buttati come animali donne, bambini e uomini visibilmente sofferenti e alla disperata ricerca di aiuto.
“Grazie per essere venuti qui! E’ la prima volta da quando siamo arrivati in Italia che riusciamo a parlare in inglese con qualcuno per chiedere aiuto e supporto” ci dicono alcuni di loro quasi con le lacrime agli occhi per la felicità di aver incontrato finalmente un briciolo di umanità.
Torniamo l’indomani e a dare supporto ai migranti c’è sempre la Rete Antirazzista insieme ad un medico del Centro Astalli. Il funzionario della Questura “smentisce” il suo stesso collega presente il giorno prima e ci impedisce non solo di interagire con i migranti (medico compreso) ma anche di consegnare loro indumenti, scarpe, dizionari e informazioni sulla richiesta d’asilo. E ci racconta il suo punto di vista sulla situazione al Palaspedini: “qui è tutto a posto”, “non c’è nessuno con problemi di salute”, “non ci risulta che abbiano bisogno di scarpe e vestiti”. Le sue parole stridono con quanto accade esattamente a un metro da lui: rinchiusi dentro con delle transenne, i migranti provano in tutti i modi a interagire con noi ma ogni comunicazione è proibita. “Dovete inviare una richiesta formale alla Prefettura”. Questa è l’indicazione. Poi il funzionario della Questura ci dà un consiglio: “Invece di venire qui occupatevi dei milioni di italiani che hanno bisogno di aiuto. Qui ci sono già degli enti accreditati preposti a fornire aiuto ai migranti”.
Già, gli enti accreditati. Ma quali sono? E soprattutto dove sono? Ci viene comunicato che gli enti accreditati sarebbero la Comunità di Sant’Egidio e la Caritas. Proviamo a chiamare più volte la Comunità di Sant’Egidio ma risponde solo la segreteria. Riusciamo a contattare la Caritas che ci spiega: “Noi ci attiviamo per portare beni di prima necessità ai migranti solo su richiesta della Prefettura”. Ma allora perché la Prefettura non li contatta? E perché viene impedito alla Rete Antirazzista di supportare i migranti? Qui non stiamo parlando di “optional”, stiamo parlando di assistenza medica, vestiti, scarpe, informazioni sulla richiesta d’asilo, mediazione linguistica. In una parola: diritti fondamentali.
Ma non è finita qui: dopo che le forze dell’ordine così attente a eseguire le disposizioni dall’alto hanno per tutta la mattina respinto dentro il palazzetto i migranti e respinto fuori dal palazzetto gli attivisti, alle 16 circa dello stesso giorno il “Palaspedini” viene svuotato e tutti gli eritrei si spostano verso la stazione. Pochi di loro (quelli che avevano qualche soldo) riescono a partire verso Milano comprando un biglietto, altri restano lì, buttati sul piccolo prato davanti alla stazione centrale. Sono completamente disorientati e abbandonati. Il 9 luglio andiamo da loro, diamo alcune informazioni per la richiesta d’asilo e li indirizziamo verso alcune mense presenti nella zona. Due di loro, visibilmente preoccupati, ci dicono: “Quando ci hanno fatto andare via la polizia ci ha detto che dovevamo lasciare la città entro domani”. Tra di loro ci sono anche donne, bambini e uomini in condizioni di salute critiche. Una donna ha visto morire suo marito durante il viaggio e adesso è rimasta da sola con la sua bambina. Il viaggio di tutti loro è iniziato mesi fa dall’Eritrea ed è stato drammatico. Molti sono morti al confine con il Sudan, attraversando il Sahara o in Libia.
In questo momento sono distesi, sfiniti e spaesati, alla stazione dei treni. E probabilmente resteranno lì per molto. Il nome della nave con la quale sono arrivati era profetico: avere dei diritti per loro è davvero una chimera.
Va in scena la “staffetta” degli sbarchi: nuovi migranti, stessa vergogna.
Il 9 luglio il Palaspedini resta vuoto solo per poco. Le lungimiranti istituzioni locali e nazionali hanno una particolare preferenza per questi luoghi e si guardano bene dall’ospitare i migranti in strutture più dignitose. A Catania ci sono diversi ex-ospedali molti dei quali ancora attrezzati e quindi perfettamente adatti ad ospitare persone. Ma per alcuni forse i migranti non sono esattamente delle persone e quindi va bene anche un palazzetto-sauna.
Il 9 pomeriggio arrivano dopo l’ultimo sbarco circa 100 migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana (molti di loro dal Gambia). Anche loro sono sopravvissuti ad un viaggio in cui hanno visto la morte in faccia. 
Li incontriamo la mattina del 10 luglio, in concomitanza con la conferenza stampa indetta dalla Rete Antirazzista Catanese. Stavolta le Forze dell’Ordine e la Protezione Civile sono assenti, c’è solo un’auto della Guardia di Finanza. Riusciamo a parlare con loro e ci raccontano che, dopo essere partiti dalla Libia, il loro barcone è andato in avaria ed è rimasto per tre giorni fermo in mezzo al mare. La terza sera si è avvicinata una nave mercantile che inizialmente non voleva soccorrerli e che lo ha fatto solo dopo aver visto che il loro barcone stava affondando. Sono arrivati sfiniti e debilitati al porto di Catania e alcuni di loro, quelli con le ferite più gravi e i minori, sono stati portati via dalla polizia mentre tutti gli altri sono stati inviati al famigerato Palaspedini. 
Ma lì tra di loro ci sono ancora dei minori i quali sono stati etichettati dalle Forze dell’Ordine come maggiorenni in spregio alla normativa che presuppone la buonafede del minore. “Io dicevo alla polizia di avere 17 anni e loro scrivevano 21. Io non ho 21 anni!” ci dice un ragazzo. E lo stesso vale per altri tre di loro. E poi alcuni vorrebbero ricongiungersi con i familiari residenti in Italia e in Europa (e anche questo sarebbe un loro diritto). E intanto i migranti si avvicinano a noi e ci chiedono scarpe (molti di loro sono scalzi e hanno ferite e piaghe ai piedi), sapone, dentifricio, acqua (al mattino non la danno), vestiti. E anche loro chiedono informazioni sulla richiesta d’asilo e la possibilità di chiamare i loro familiari per dire loro almeno due parole: “siamo vivi”.
Ma in tutto questo dove sono le istituzioni e gli enti accreditati? Anche stavolta non ci sono. Chiamiamo il Comune di Catania che ci rimanda alla Protezione Civile la quale ci dà un’informazione tanto “inedita” quanto sconvolgente: il fatto non è che il piano di accoglienza non funziona, il fatto è che non c’è un piano di accoglienza. La cosiddetta “emergenza” finisce non appena i migranti mettono piede al porto di Catania. E dopo? Praticamente il nulla. Qualche pasto al giorno e basta. 
E’ notizia di ieri che sarebbe stato raggiunto “un accordo tra Governo, Regioni, Comuni e Province per il varo di un piano per la gestione dei profughi, con relative politiche di accoglienza”. In attesa di questo piano, che diventerà in ogni caso l’ennesimo business sulla pelle dei migranti, la realtà è che non c’è niente. L’unico aiuto è stato quello fornito dagli attivisti locali: contatti e informazioni utili, vestiti, acqua, scarpe, medicinali, ecc… Un aiuto importante che va però in parallelo con la volontà degli stessi attivisti denunciare quanto sta accadendo e quanto accadrà.
Adesso alla stazione decine di eritrei vagano per la stazione, decine di gambiani sono parcheggiati al Palaspedini e altre migliaia di migranti, almeno quelli che ce la faranno, arriveranno a Catania e condivideranno il loro destino.
Il destino di chi non ha la libertà di spostarsi o di rimanere in un paese. In una parola: di vivere.
Perché per arrivare nella “Fortezza Europa” si rischia sempre di più la vita e ci si imbatte in Frontex si finisce in mano a trafficanti e a governi dei paesi extraeuropei sostenuti spesso dall’Europa. E senza l’apertura di “veri” corridoi umanitari, di percorsi protetti che permettano a tutti i migranti di rivolgersi ad uffici dell’UE e dei paesi europei e di imbarcarsi su mezzi riconosciuti e sicuri, aumenteranno sempre di più le morti nel più grande cimitero del mondo, il Mar Mediterraneo.
Perché poi chi riesce a sopravvivere e vuole chiedere asilo in Sicilia viene mandato, dopo settimane o mesi di reclusione, al CARA di Mineo, un luogo isolato dal mondo e invivibile (5000 persone rinchiuse lì dentro con una capienza di 2000), un luogo dove si marcisce in attesa di incontrare la commissione che valuterà le richieste di asilo (alcuni migranti sono lì da 3 anni), un luogo che è quindi la negazione stessa del “diritto d’asilo” come dimostra il suicidio di Mulue Ghirmay e i frequenti atti di autolesionismo degli “ospiti” del CARA:
Perché chi vuole andare al Nord Italia deve farlo a sue spese, diventando vittima di truffatori e trafficanti ed essendo costretto a viaggiare sempre in incognito col rischio di essere rinchiuso in un CIE.
Perchè se, comprensibilmente, qualcuno prova ad andare via dall’Italia arriva la mannaia del Regolamento Dublino che, violando ogni principio di libertà di movimento, obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo paese di arrivo e quindi impedisce loro di costruire la propria vita in un paese che non sia l’Italia, Italia che ha più volte dimostrato di violare i diritti fondamentali dei migranti.

Welcome to Sicily, welcome to Italy, welcome to Europe.