Corriere delle Migrazioni - Dopo le rivolte che hanno costretto alla chiusura quasi totale i Cie di Gradisca d’Isonzo e Milano, decine di migranti sono stati trasferiti da queste strutture, ormai inagibili, nei centri di identificazione ed espulsione di Caltanissetta (Pian del Lago) e Trapani (Milo). La visita in quest’ultimo centro lasciava presagire una situazione di forte tensione (anche a fronte delle endemiche carenze strutturali, denunciate nel tempo persino dai sindacati di polizia, e del regime di proroga nel quale l’ente gestore eroga solo in minima parte i servizi previsti).
Siamo entrati nel primo pomeriggio di lunedì 18 novembre. Subito abbiamo assistito all’accompagnamento di un migrante nella stanza utilizzata dai sanitari perché si era “tagliato”, gesto di autolesionismo che – insieme con i tentativi di fuga, conclusi spesso con fratture degli arti inferiori e con il riaccompagnamento nel centro – rappresentano ormai la quotidianità. Una direttiva del ministero dell’Interno stabilisce infatti che i migranti che si feriscono durante i tentativi di fuga o per atti di autolesionismo debbano essere curati all’interno della struttura, anche se per questo occorrerebbero presidi sanitari e personale che le convenzioni stipulate al massimo ribasso (a Trapani si è arrivati addirittura a 21 euro a persona al giorno) non garantiscono affatto. Mancano persino i soldi per acquistare un paio di stampelle. Ed ancor meno possono essere offerti i servizi di assistenza e mediazione quando la gara d’appalto viene sospesa – a Trapani è successo anche questo – proprio a causa dei dubbi sollevati dalla Prefettura per l’eccessivo ribasso. E, intanto, il gestore in regime di proroga, il Consorzio Oasi, riduce al minimo il personale impegnato all’interno della struttura (attualmente c’è il rischio di ulteriori proroghe in favore dell’attuale gestore, che pure si voleva allontanare, come effetto del contenzioso tra ditte assegnatarie e Prefettura).
Ma torniamo alla visita. Ci troviamo di fronte a una situazione profondamente cambiata, rispetto agli ultimi sopralluoghi effettuati nell’ambito della campagna LasciateCientrare. Quasi scomparsi gli operatori civili, diminuite le forze di polizia, di certo aumentato il numero dei migranti trattenuti, oltre centotrenta, per effetto dei sucitati trasferimenti da Milano e Gradisca. Spariti anche i pattuglioni mobili di poliziotti in tenuta antisommossa e vestiti come robocop che, con gli scudi di plastica, ci avevano accompagnato nelle precedenti occasioni. Questa volta scudi e caschi sono rimasti nel deposito. Abbiamo potuto visitare le parti interne del centro senza scorta, accompagnati da funzionari di polizia e da militari dell’esercito, entrando persino nelle singole camere delle diverse sezioni, ovviamente dopo aver chiesto il permesso agli immigrati sdraiati sui letti. Sì, a letto, in pieno pomeriggio, perché nella struttura di Milo, come in altri Cie, dove si possono passare quattordici mesi ed oltre, non c’è assolutamente nulla da fare. Neanche il campetto di calcio che, per esempio, nel pur disastroso Vulpitta permetteva, per qualche ora al giorno, di allentare la tensione. Nulla, nulla da fare, solo aspettare il trascorrere del tempo, passeggiando magari da un padiglione ad un altro, sempre dentro il recinto della sezione assegnata, senza notizie sul proprio destino, senza contatti con un avvocato, senza la possibilità di prevedere quante altre volte il giudice di pace prorogherà il trattenimento. Molti consoli ormai non “riconoscono” più i migranti loro connazionali che hanno precedenti penali, o magari assolti, dopo una carcerazione preventiva ingiusta, ma marchiati a vita dal passaggio in carcere, talvolta per reati da sopravvivenza, come quelli commessi dalle persone incappate nella cosiddetta sanatoria-truffa. Persone con famiglia ed attività in Italia, per le quali non ricorreva proprio quel rischio di fuga che la Direttiva dell’Unione Europea sui rimpatri 2008/115/Ce impone come requisito per il ricorso alla detenzione amministrativa, che per la stessa direttiva, dovrebbe costituire il mezzo estremo da utilizzare nei casi di espulsione e che, salvo casi eccezionali da motivare indivualmente, non dovrebbe protrarsi oltre i sei mesi. Casi eccezionali che a Trapani sono la norma.
Ovunque, nelle stanze all’interno dei padiglioni un degrado crescente, perché ormai il ministero dell’Interno non ripara più le strutture o le attrezzature che vengono danneggiate dai migranti per protesta. E molto spesso questa diventa la “scusa” per soprassedere anche sulla manutenzione ordinaria. Gli agenti ed i funzionari di pubblica sicurezza sembravano comunque consapevoli delle condizioni indegne del trattenimento, e della stessa inutilità del protrarsi della detenzione amministrativa a fronte della scarsa collaborazione dei consolati. Ai parlamentari presenti (Palazzotto e Pellegrino) sono stati forniti dati e notizie senza i limiti del passato. La disperazione degli “ospiti” però era ancora più cupa e profonda. Molti non volevano parlare, qualcuno si è rifiutato di rispondere, invitandoci a chiedere alla questura le informazioni sulla sua situazione. Quasi tutti avevano perso contatti e fiducia negli avvocati e nella legge e, con ogni probabilità, anche nei visitatori occasionali come alla fine eravamo anche noi.
Questa volta viene davvero difficile scrivere ancora di Cie dopo tante parole e tanti documenti che non hanno mutato la situazione, difficile descrivere una situazione che tanti conoscono e che molti preferiscono ignorare, anche quando si parla di “abrogare” la Bossi-Fini. Bisognerebbe davvero cominciare con l’abrogazione dell’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione n. 286 del 1998, che disciplina proprio i centri di identificazione ed espulsione. Questa norma – lo abbiamo scritto molte volte, ma repetita iuvant – recepisce un articolo della legge 40 del 1998, la legge Turco-Napolitano, che i Cie aveva inventato, chiamandoli Cpta, centri di permanenza temporanea ed assistenza.
I Cie dovrebbero essere soppressi tutti, non è possibile alcuna umanizzazione. Anche se molti sono stati chiusi o quasi svuotati, a causa delle azioni di protesta dei migranti, non si può cantare vittoria fino a quando non saranno cancellati dalla legislazione italiana. E si dovrà anche impedire che le autorità di polizia effettuino rimpatri immediati delle persone espulse o respinte senza neppure farle transitare nei Cie e senza convalida giurisdizionale, come si sta verificando laddove gli accordi bilaterali lo permettano (vedi Nigeria, Egitto, Tunisia, Ghana…), con i consoli dei paesi di origine che in questo caso collaborano eccome, e garantiscono riconoscimenti lampo in aeroporto, un attimo prima dell’imbarco. In “patria”, ad attendere gli espulsi, molto spesso c’è la prigione e ci sono funzionari di polizia corrotti che chiederanno ancora una tangente per rimetterli in libertà.
Ma ci sono anche quelli che vorrebbero essere rimpatriati e rimangono a marcire nei Cie, per effetto delle leggi vigenti, ne abbiamo incontrati diversi anche a Trapani e quelli che sono condannati ad una “doppia pena”, incostituzionale, perché molte autorità consolari rifiutano il riconoscimento delle persone che hanno precedenti penali, e dunque condannano ad un trattenimento a tempo indeterminato persone che hanno già scontato il loro debito con la giustizia. E su questo sarebbe tempo che la Corte Costituzionale tornasse a dire qualcosa. Adesso ne fa parte un giudice, Giuliano Amato, che nella prefazione di un recente libro sui Cie ha scritto: “Un giorno forse ci accorgeremo che tranquillizzare così noi stessi e l’opinione pubblica serve a poco o nulla. Quel giorno ci accorgeremo anche che la detenzione amministrativa non solo è inefficace, ma non è neppure consentita dalla nostra Costituzione”. Fa piacere che se ne sia accorto. Certo, sarebbe stato meglio se quest’illuminazione fosse sopraggiunta prima, quando il suddetto giudice era ministro dell’Interno e aveva i massimi poteri di intervento. Noi lo sostenevamo da quando i Cie, allora Cpta, furono inventati. Che i Cie sono in contrasto con la nostra Legge fondamentale attendiamo adesso di leggerlo in una sentenza della Corte Costituzionale.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo
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