venerdì 28 giugno 2013

A proposito di sbarchi e respingimenti…

Ripresi i primi, mai finiti i secondi. Ma una sentenza “importante” può cambiare le carte in tavola
Corriere Immigrazione - Con la sentenza del 17 giugno scorso la Corte di Cassazione stabilisce che anche nel caso dei cosiddetti respingimenti “differiti” disposti dal questore (ex Art. 10 comma 2 del T.U. 286 in materia di immigrazione), a pronunciarsi sarà il giudice ordinario e non il Tribunale Amministrativo Regionale.

Salta, in questo modo, il “giochino” che per anni ha permesso ad alcune questure siciliane di effettuare respingimenti “differiti”, cioè disposti senza riconoscere un diritto di difesa effettiva ai migranti entrati irregolarmente o ammessi nel territorio dello stato senza documenti validi ma per esigenze di soccorso. Nei rari casi in cui si riusciva infatti a presentare ricorso contro questa procedura di respingimento, puntualmente il Tribunale amministrativo si dichiarava incompetente, girando la patata bollente al giudice ordinario, che a sua volta, salvo pochissime eccezioni, si dichiarava incompetente.
Il risultato? L’immigrato irregolare, sottoposto a procedure sempre più rapide di respingimento, si trovava nei fatti privato di qualsiasi diritto di difesa. Diventava così impossibile fare valere una richiesta di asilo o uno dei divieti di respingimento previsti dall’Art. 19 del Testo Unico sull’Immigrazione.

Non solo: si spianava, in questo modo, la strada a detenzioni arbitrarie in centri informali, ai respingimenti collettivi (vietati dall’Art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e alla violazione, a seguito dell’accompagnamento forzato in frontiera, del divieto di tortura e di altri trattamenti definiti inumani o degradanti (divieto sancito dall’articolo 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo). Soltanto in tempi recenti i moduli adottati nei casi di respingimento differito erano stati modificati ed indicavano i giudici ordinari come autorità a cui rivolgersi per i ricorsi. Questi però, nella maggior parte dei casi, continuavano a negare la loro competenza, privando così gli immigrati di un diritto di difesa effettivo: e questo avveniva sia nel caso dei respingimenti, sia nel caso dei trattenimenti amministrativi.

La sentenza del 17 giugno (n. 15115) è “importante” perché conferma le critiche al sistema (del tutto inefficace) dei ricorsi contro i respingimenti differiti, e in parte, vale anche a dimostrare l’illegittimità delle procedure di respingimento immediato. Procedure che in questi giorni di intensa ripresa degli sbarchi (163 migranti sono stati soccorsi poche ore fa a sud di Pozzallo e trasportati a Siracusa, mentre nel Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa ci sono già 500 persone) sono state adottate ancora verso la Tunisia e l’Egitto. I Cpsa continuano a essere “trasformati” in centri di detenzione (succede a Pozzallo, in provincia di Ragusa, e a Cagliari Elmas), mentre si aprono o si ristrutturano nuovi centri informali di detenzione per tunisini ed egiziani da respingere con procedure sommarie (grazie agli accordi di riammissione stipulati appunto con Egitto e Tunisia).
Con questa sentenza la Corte di Cassazione detta un punto fermo sulla tutela giurisdizionale dell’immigrato sottoposto alla misura del respingimento “differito” (disposto sulla base dell’Art. 10 comma 2 del T.U. 286 del 1998). Secondo la Corte, «deve dunque, in raccordo con le premesse esigenze di mantenere ferma una coerenza di “sistema”, darsi atto che il provvedimento del questore diretto al respingimento incide su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo: l’atto è infatti correlato all’accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge (Art. 10, c. 2 lett. a) e b) del D.Lgs n. 286 del 1998) ed all’accertamento negativo della insussistenza dei presupposti per l’applicazione dalle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale nelle sue forme del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, ovvero che impongono l’adozione di misure di protezione solo temporanea per motivi umanitari (Art. 10, c. 2 e 19, c. 1 D.Lgs. n. 286 del 1998). E pertanto, in mancanza di norma derogatrice che assegni al giudice amministrativo la cognizione della impugnazione dei respingimenti, deve trovare applicazione il criterio generale secondo cui la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, proprio in ragione della inesistenza di margini di ponderazione di interessi in gioco da parte della Amministrazione, spetta al giudice ordinario».
In parole e in concetti più semplici: il soggetto a cui ricorrere, in caso di respingimento differito, è indicato con chiarezza ed è il giudice ordinario. I balletti di competenze non hanno più possibilità d’essere.

Le considerazioni della Corte si agganciano anche alla precedente condanna subita dall’Italia sul caso “Hirsi” per i respingimenti in Libia nel 2009. «Le ragioni appena illustrate trovano peraltro conferma nella recente sentenza 23 febbraio 2012 della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (Hirsi Jamaa e altri c. Italia), –afferma la Corte – che, nel dichiarare illegittimi i respingimenti, effettuati in mare, verso la Libia, per violazione, tra l’altro, dell’art. 3 Cedu, ha affermato che “Le difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso, da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili con i loro obblighi derivanti da convenzioni”. E, in particolare che “l’Italia non è dispensata dal dovere di rispettare i propri obblighi derivanti dall’articolo 3 della Convenzione per il fatto che i ricorrenti avrebbero omesso di chiedere asilo o di esporre i rischi cui andavano incontro».

La materia dei respingimenti e dei relativi ricorsi è disciplinata anche a livello sovranazionale, con indicazioni e norme di rango superiore agli accordi bilaterali: di queste direttive dovrebbero innanzi tutto tener conto le autorità di polizia. L’Art. 13 comma 1 della Direttiva 2008/115/Ce, in materia di ricorsi contro le decisioni di rimpatrio, per esempio, prevede che «al cittadino di un paese terzo interessato sono concessi mezzi di ricorso effettivo avverso le decisioni connesse al rimpatrio di cui all’articolo 12, paragrafo 1, o per chiederne la revisione dinanzi ad un’autorità giudiziaria o amministrativa competente o a un organo competente composto da membri imparziali che offrono garanzie di indipendenza».
In ogni caso andrebbe rispettato l’Art. 13 del Regolamento 562 del 2006 (Codice Frontiere Schengen), norma direttamente precettiva in Italia, laddove si prescrive che «il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è d’applicazione immediata e al terzo comma che le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale. Al cittadino di paese terzo sono altresì consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale», concludendo poi che «l’avvio del procedimento di impugnazione non ha effetto sospensivo sul provvedimento di respingimento».

Per la velocità delle procedure di rimpatrio forzato, conseguenti all’adozione delle misure di respingimento, la questione dei tempi del ricorso è essenziale, così come la ubicazione certa dei giudici ai quali rivolgersi. Per non ricordare la diffusa difficoltà di accesso al patrocinio a spese dello stato.
Occorrerebbe distinguere, in ogni caso, tra il respingimento immediato sulla frontiera (che impedisce alla persona l’ingresso nel territorio, ma la lascia libera di circolare nello spazio esterno al territorio stesso dello stato) e le altre forme di respingimento, nelle quali si realizza quella che Paolo Bonetti chiama “coercizione fisica” da parte dell’autorità di polizia (cfr. Diritto degli stranieri, a cura di B. Nascimbene e P. Bonetti, Cedam, Padova, 2004, pp. 284). In questo secondo caso appare difficile escludere che il respingimento non comporti una limitazione della libertà personale che rientra nella previsione dell’Art. 13 della Costituzione, come ha ricordato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 105 del 2001. E da qui dovrebbero derivare: la competenza del giudice ordinario; i limiti alla legittimità dei provvedimenti di respingimento quando attuati, come ricorre nella prassi corrente, senza convalida giurisdizionale; i dubbi sulla fondatezza costituzionale dell’intero articolo 10 del T.U., dal momento che per la limitazione della libertà personale da parte della polizia la Costituzione richiede requisiti precisi (eccezionalità, tassatività, necessità, urgenza, riserva assoluta di legge e riserva di giurisdizione) che, in questi casi, non sembrano riscontrabili.

Concludendo, per la nostra Costituzione e per le nostre leggi in materia di immigrazione ed asilo, non esistono dunque “zone franche”, aree di transito aeroportuali, imbarcazioni militari in acque internazionali. I centri di detenzione informali, anche se denominati centri di primo soccorso ed accoglienza sono previsti dall’Art. 23 del Regolamento di attuazione del T.U. non certo al fine di eseguire rimpatri forzati. Non possono essere luoghi che nel corso delle procedure di respingimento possano comportare una limitazione della libertà personale ed essere sottratti alla giurisdizione del giudice ordinario davanti al quale qualunque persona migrante, seppure in condizione di irregolarità, ha il diritto ad un ricorso effettivo.

Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo