lunedì 5 novembre 2012

Nuova strage di migranti davanti alle coste libiche. Le motovedette regalate a Gheddafi fermano i motori.

Lo avevamo detto da tempo, ma nessuno ha ascoltato. L’emergenza immigrazione deve terminare ( almeno sulla carta) entro il 31 dicembre 2012, i servizi di accoglienza vanno chiusi, dopo essere costati un patrimonio a partire dalla proclamazione dello stato di emergenza dichiarato da Berlusconi nel febbraio del 2011, degli sbarchi che continuano se ne deve parlare il meno possibile, i vecchi accordi bilaterali vanno ancora bene.


Adesso, alla fine dell’anno, i migranti ancora nei centri di accoglienza gestiti dalla protezione civile saranno rigettati sulla strada, bene che vada con un permesso di soggiorno temporaneo, ed i reclusi di Lampedusa possono attendere, prima o poi quando le indagini di polizia avranno permesso di scovare i soliti scafisti, saranno trasferiti altrove, o rimpatriati, come è successo in questi mesi, senza che l’opinione pubblica ne fosse minimamente informata. Le elezioni si avvicinano e  immigrazione e asilo sono temi sui quali si possono solo perdere voti. Eppure le tragedie dell’immigrazione irregolare si ripetono, non solo nelle acque del Mediterraneo, mentre la “gente”, nella morsa della crisi conomica, sembra assuefatta a tutto. Neanche i cadaveri che vengono a galla costringono ad una riflessione che vada oltre il pietismo di facciata.
crivevamo due mesi fa dopo la strage dell’isolotto di Lampione vicino Lampedusa: “ Malgrado i contorni ancora confusi dell’ennesima strage nelle acque prospicienti Lampedusa, nei pressi dell’isolotto disabitato di Lampione, a ovest dell’isola, primo lembo di terra italiano di fronte ai porti tunisini di Mahdia e Monastir, appare ormai certo come il dispositivo di controllo e di salvataggio che prima era dispiegato nelle acque a sud di Lampedusa, anche a 60 miglia a sud dell’isola, operi ormai a stretto ridosso delle isole Pelagie. Alla dichiarazione di Lampedusa come “porto non sicuro”, formalmente adottata nel settembre del 2011 dal Corpo delle Capitanerie di porto su forte sollecitazione dell’ex ministro dell’interno Roberto Maroni, è seguito il riposizionamento di tutte le unità navali che prima facevano base a Lampedusa, molte delle quali sono state utilizzate per i trasferimenti dei migranti verso Porto Empedocle (Agrigento) e comunque dislocate più a nord, al limite delle acque territoriali italiane. Si è consentito così, per un verso, un avvicinamento alle coste italiane più facile dei mezzi che trasportano migranti, spesso anche pescherecci, che riescono ad eludere la sorveglianza delle unità libiche e tunisine, ma si è impiegato anche più tempo per raggiungere, (e salvare) in un numero molto minore di casi, i migranti che si trovano ancora in acque internazionali, magari in procinto di affondare nel corso della loro traversata verso la fortezza Europa. Anche in questo ….. caso verificatosi nella serata di giovedì 6 settembre, dal momento del primo allarme telefonico fino ai primi interventi di salvataggio, sarebbero passate alcune ore, anche a causa del calare della notte che ha reso più difficili le ricerche. Si è ritenuto forse che lasciare mano libera alle unità libiche e tunisine, alle quali si è permesso di riprendere i migranti in fuga verso l’Europa, consentisse di allentare la sorveglianza nelle acque internazionali a sud e ad ovest di Lampedusa, ed in effetti, rispetto allo scorso anno, gli sbarchi sono diminuiti del 90 per cento. Ma non certo perché Lampedusa è stata dichiarata “porto non sicuro”, una decisione del tutto infondata dal punto di vista tecnico perché non si può qualificare come “non sicuro” un luogo di approdo che nel corso degli anni ha permesso il salvataggio di decine di migliaia di vite, solo perché il locale centro di prima accoglienza e soccorso (CSPA), trasformato impropriamente in centro di detenzione, era stato incendiato ( nel settembre del 2011) durante una protesta dei migranti che vi erano illegalmente trattenuti da settimane.
Secondo un comunicato dell’ACNUR del 30 giugno scorso, la maggior parte delle imbarcazioni che partono dalla Libia venivano riprese dai mezzi libici che, in base ai vigenti protocolli operativi, intervengono anche in collaborazione con mezzi militari maltesi ed italiani. E si hanno pure notizie di imbarcazioni tunisine o algerine riprese dai mezzi militari di quei paesi e ricondotte nei porti di partenza. Ormai dopo la dura condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo per i respingimenti collettivi verso la Libia effettuati dalla nave Bovienzo della Guardia di Finanza il 6 maggio 2009, il "lavoro sporco", consistente nel blocco dei migranti in mare e nella loro riconduzione violenta nei porti di partenza, è stato esternalizzato in base agli ultimi accordi bilaterali firmati da Maroni con la Libia e la Tunisia. Quanto avvenuto fino alla tragedia di settembre davanti allo scoglio di Lampione, ( un naufragio quando già i migranti erano in vista di Lampedusa),  costituisce  una conferma di quanto è stato sostenuto in varie occasioni anche dal ministro dell’interno italiano Cancellieri, secondo la quale ogni stato rivierasco del Mediterraneo deve sorvegliare le proprie acque territoriali per contrastare l’immigrazione clandestina in Europa. E su questi profili operativi sembrano ancora vigenti gli accordi di cooperazione interforze tra le autorità libiche, tunisine, algerine e quelle italiane”.
Adesso i mezzi militari italiani sono stati schierati più a sud, o comunque sono tenuti pronti per intervenire in acque libiche, forse anche per difendere i pescherecci di Mazara del Vallo, ben sei provenienti da questa marineria sono stati sequestrati nel corso del 2012 dai libici e dai tunisini, quando le motovedette italiane si erano ritirate più a nord e si limitavano a pattugliare soltanto la zona contigua alle nostre acque territoriali, 24 miglia circa a sud di Lampedusa. Intanto le autorità maltesi continuano a non intervenire, anche quando sono le prime a scoprire sugli schermi radar una carretta del mare in navigazione verso la Sicilia. Gli sbarchi delle ultime settimane, per intenderci nel mese di ottobre, meglio i salvataggi riusciti all’ultimo minuto sempre più a sud di Lampedusa, fino a 30-40 miglia dalle coste libiche, ed a 130 miglia a sud di Lampedusa fanno comprendere che qualcosa è ancora mutato, le partenze dalla Libia sono riprese, e i mezzi militari di quel paese non bloccano più i natanti carichi di profughi prima ancora di uscire dalle acque territoriali, forse anche in dipendenza con rinnovato clima di scontro, anche armato, che si registra tra le diverse fazioni libiche. Una situazione che vede i migranti come vittime designate, soprattutto chi ha la pelle nera viene facilmente scambiato per un mercenario che ha combattuto per Gheddafi e sottoposto a processi sommari che si possono concludere anche con una esecuzione in piazza. E malgrado la situazione in Libia, la chiusura del campo profughi di Coucha, al confine tra Libia e Tunisia, ha costretto tanti altri migranti che avevano chiesto protezione internazionale ricevendo un rifiuto, a ritornare in Libia ed a ritentare la traversata in mare verso l’Europa. Sempre più spesso anche a costo della vita.  Non è certo un caso se ad arrivare dalla Libia negli ultimi tempi siano soprattutto somali e migranti provenienti dal Corno d’Africa ( Eirtrea, Etiopia), mentre sono quasi scomparsi i nigeriani, i ghanesi ed in genere i migranti provenienti dall’Africa sub sahariana. Arrivano solo coloro ai quali le milizie libiche permettono di partire. Continua invece un flusso modesto ma costante di tunisini, che vengono bloccati a tempo indeterminato nel CPSA di Lampedusa o in centri informali, senza alcun rispetto per le procedure previste dalla legge e dal regolamento frontiere Schengen, per i quali continuano ad operare dall’aeroporto di Palermo Punta Raisi i due voli settimanali di rimpatrio sommario, senza identificazione individuale, come concordato da Maroni in Tunisia il 5 aprile 2011.
Si deve rendere sicuramente merito alle unità militari italiane che si spingono sempre più a sud a salvare vite umane ed a proteggere i pescherecci che operano in acque internazionali, quelle stesse acque che i libici ritengono ancora di loro competenza fino a settanta miglia dalla costa, ma si deve chiedere altresì al governo italiano di porre fine alle prassi di polizia di trattenimento prolungato o del tutto informale dei migranti portati a terra dopo operazioni di salvataggio che destano ammirazione in tutto il mondo. E vanno pure rinegoziati gli accordi con la Libia, rimettendo al primo posto la tutela della vita umana in mare e non il contrasto dell’immigrazione clandestina, come sembrava ancora emergere dal verbale  dell’incontro tra il ministro dell’interno Cancellieri ed il suo omologo libico, lo scorso 3 aprile. Un incontro che nella sostanza, a parte i respingimenti collettivi sanzionati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza sul caso Hirsi nel febbraio di quest’anno, confermava ancora i protocolli operativi e la comune catena di comando, concordati con le autorità libiche da Amato e da Manganelli nel novembre del 2007, e poi recepiti nel Trattato di amicizia firmato nell’agosto del 2008 da Berlusconi e da Gheddafi . Eppure ormai tutti sanno che la maggior parte delle persone che arrivano dalla Libia sono potenziali richiedenti asilo, ne ha preso atto anche il governo che nei giorni scorsi ha adottato un provvedimento che prevedere il riesame di tutti i casi di diniego di uno status di protezione da parte delle commissioni territoriali nei confronti dei profughi arrivati dalla Libia, un orientamento che ha fatto perdere un sacco di tempo alle persone interessate ed è costato una montagna di danaro pubblico alle casse dello stato, allontanando forse per sempre le possibilità di integrazione, ma creando soltanto astio e frustrazione.
Le stragi ricorrenti impongono una svolta nelle politiche migratorie a livello internazionale. Occorre rivedere a livello europeo i rapporti con Malta, paese con la più vasta zona (SAR) di ricerca e salvataggio a sud d’Europa, che deve essere un punto di salvataggio e sbarco al pari di Lampedusa e che non si può limitare a trasmettere gli allarmi che riceve, con comunicazioni successive che possono fare perdere ore preziose per gli interventi di salvataggio. Malta non può evidentemente accogliere tutti  i naufraghi che arrivano dalla Libia, due mila persone sbarcate in questa piccola isola, come è successo quest’anno, corrispondono a duecentomila migranti arrivati in Italia.  Dopo il salvataggio, a livello europeo, anche con un diverso impegno dei mezzi impiegati dall’agenzia Frontex, occorre garantire a tutti lo sbarco in un place of safety, porto sicuro, che nel linguaggio delle convenzioni internazionali significa un luogo dove i diritti fondamentali della persona vengono rispettati, dove si possa fare valere il diritto alla protezione, e non certo il porto più vicino. Vanno dunque previste procedure rapide di ritrasferimento da Malta in altri paesi europei, nessuno si può sottrarre al rispetto degli obblighi di salvataggio e protezione che discendono dalle convenzioni internazionali, in un momento in cui la situazione nei paesi nordafricani non permette alcuna forma di respingimento indiscriminato o procedure di riammissione concordate in base ad accordi bilaterali. Accordi stipulati con governi transitori molto diversi da quelli che adesso si stanno faticosamente formando, talvolta anche attraverso fasi cruente, all’interno di processi politici del tutto ignorati in Europa, ma le cui conseguenze, oltre che sui migranti, potrebbero presto ricadere su tutti i cittadini europei.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo